
Il decennio sesso, droga e rock and roll degli anni 70 si era concluso da poco quando l’immaginario collettivo fu arricchito da una delle opere cinematografiche più influenti di sempre. Espressione distopica di un futuro immaginario, Blade Runner fu un calcolato azzardo per i tempi, e segnò la cesura tra due fasi del mondo della fantascienza.
Ancora lontana dalle devastazioni compiute dall’odierna ossessione per il politically correct, la fantascienza poggiava ancora le sue basi su storie solide, pregne di significato, pensate per esprimere le inquietudini e gli interrogativi sul futuro di una generazione che allora cominciava a prendere coscienza di sé.
Abbandonate le suggestioni western della space opera Star Wars, Blade Runner è la trasposizione filmica del romanzo di Philip Dick Gli androidi sognano pecore elettriche?, una riflessione sugli interrogativi morali associati all’emersione di una coscienza all’interno di quei sistemi informatici che nel 1982 muovevano ancora i primi passi verso l’enorme sviluppo attuale.
L’azione del film si sviluppa all’interno di una San Francisco distopica, il cui clima è piagato dalla presenza di una pioggia insistente e continua, che costituisce l’elemento di base dell’inquietudine generata dalle immagini. Un ambiente soffocante, sovraffollato, permeato dell’onnipresenza della pubblicità che bussa alle porte e alle finestre degli abitanti, i quali cercano di trovare spazi di privacy in un sottile riferimento a 1984 di George Orwell.
Ambientata nel 2019, anno che nella realtà e diventato famoso per un nemico molto più concreto e reale, la storia è concentrata intorno alla figura di un cacciatore di androidi. A mezza strada tra il poliziotto ed il bounty killer, Deckard si occupa di individuare e ritirare androidi ribelli che per un’autonoma evoluzione dei propri schemi di pensiero siano diventati autocoscienti. Moderni schiavi, gli androidi vengono infatti impiegati per una varietà di usi sgradevoli o pericolosi sulle colonie extramondo, dalla prostituzione al combattimento.
L’obiettivo di Deckard è quello di neutralizzare un gruppo di androidi del tutto simili ad esseri umani, che sfuggiti ai compiti assegnatigli, sono tornati sulla Terra alla ricerca del loro creatore. Il loro obiettivo, infatti, è quello di riuscire ad estendere la propria vita, che per ragioni di sicurezza viene limitata a pochi anni al momento della fabbricazione.
La caccia proseguirà spietata fino a quando solo Roy Batty, il leader del gruppo, sarà sopravvissuto. Braccato sempre più da vicino da Deckard, ed avendo appreso dal suo creatore che non c’è alcun modo di estendere la propria esistenza, lo uccide e fa del tetto di un edificio il suo ultimo rifugio.
Raggiunto da Deckard, l’androide lo mette in condizione di non nuocere ed ha la possibilità di ucciderlo, ma decide di risparmiarlo compiendo il proprio viaggio verso l’umanità.
L’acme del film è il monologo finale che Roy Batty, interpretato da un indimenticabile Rutger Hauer, pronuncia sotto una pioggia sferzante e gli occhi stralunati di Deckard, interpretato da Harrison Ford:
«Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.»
Poche parole, incorniciate dall’immortale musica di Vangelis, consegnano quest’opera alla leggenda. Ancora oggi, in un futuro in cui muoviamo a grandi passi verso la costruzione di androidi sempre più perfezionati, esse toccano le nostre anime e ci ricordano di non ridurre l’evoluzione tecnologica ad una mera performance scientifica, ma di considerarne sempre attentamente i profili etici ed umani.