
Il convegno e-privacy organizzato dal Progetto Winston Smith e il Centro Hermes per la Trasparenza e i Diritti umani digitali, è arrivato alla sua XXX edizione con il titolo provocatorio “Sospendiamo la privacy”. È stata un’occasione per fermarsi a riflettere.
Organizzare un intervento per parlare dell’esigenza di un debugging legale degli algoritmi non è stato affatto facile, considerato l’attuale contesto che stiamo vivendo ed i retroscena estremamente complessi che inevitabilmente si pongono come cause – o concause – di una mancata cultura di protezione dei dati personali adeguata i tempi e alle tecnologie in cui siamo immersi. L’intreccio delle pressioni degli operatori OTT e i corrispondenti scenari di dipendenza tecnologica, così come la ricerca spasmodica di un rafforzamento dell’azione degli attori pubblici attraverso nuovi – e pericolosi – strumenti disvelano orizzonti di rischio prima sconosciuti e comunque incalcolabili. E se dalla percezione del rischio deriva l’esigenza di tutela, è proprio sulla percezione o consapevolezza che è quanto mai necessario ed urgente agire affinché non si continui a percorrere una pericolosa deriva. Certamente una tutela può essere parzialmente ridotta, ma non deve mai recedere o soccombere in virtù di un convincimento aprioristico ed immotivato, altrimenti si incontrerebbero conseguenze irreparabili per cui non può esistere alcuna azione di immediato ed efficace ripristino.
Un diritto o una libertà fondamentale, è bene considerare, non può ammettere garanzie parziali e dirsi comunque tutelato in nome di un “maggiore bene comune”. Dal momento che i moderni ordinamenti che si vogliono professare come democratici non ammettono diritti tiranni, un proporzionale contemperamento è senz’altro accettabile ma tutt’altro è contemplare scenari in cui compressioni, limiti o deroghe anche temporanee vengono imposte senza motivazione specifica. Il contesto emergenziale non può diventare giustificazione che prescinda dall’applicazione del principio di proporzionalità, come recentemente ha ribadito la CGUE facendo riferimento alla lotta contro i reati di terrorismo e i reati gravi.
Si moltiplicano però racconti secondo cui un algoritmo non riesce ad essere pienamente performante per colpa della privacy. Ma anziché ricercare alternative, viene selezionato l’alibi di indicare un diritto fondamentale come ostacolo e chiederne la sospensione o deroga. E talvolta, per effetto di un’emergenza o di spinte più gentili di nudging, gli interessati rinunziano alle proprie tutele. La rana digitale di Chomsky bollirà più in fretta e comunque sceglierà di non muoversi, ma ciò che è nel mondo digitale e dei dati rientra comunque nel novero del reale e nel reale produce effetti distorsivi e impattanti.
Un algoritmo non richiede alcuna sospensione di diritti, ma solo una corretta progettazione del database, delle operazioni da svolgere e della correlazione logica fra richiesta formulata e soluzione prospettata.