
“Che banda che noia, che noia che banda …”
Una delle tante scoperte dell’inconsueta esperienza del lockdown è stata che, obbligati a stare in casa, ci serviva più banda per guardare le serie tv. Dando per scontato che neanche quella fosse l’occasione per parlarsi in famiglia, per capire la realtà senza essere fagocitati dal quotidiano, tutti si sono accorti che serviva più banda e angosciosamente si sono ricordati che da un pezzo si parlava e riparlava fino a noia di banda ultra larga e di fibra ottica.
Il problema ha, come taluni, ahi loro, un paio di corni: il primo è la realizzazione e la proprietà di una rete ottimizzata, leggi unificata. Quando l’allora SIP, facente capo a STET facente capo a IRI, fu privatizzata, il mercato delle tlc fu sì liberalizzato ma a uno degli operatori, la neonata Telecom Italia, rimasero in pancia la rete fisica fissa e quella mobile, determinando una posizione dominante anche nella, nata libera, mobile che andava prendendo piede; ogni operatore mobile poteva farsi la sua serie di torri ma di fatto oltre un certo limite (o del tutto) conveniva pagare l’interconnessione a TIM, a volte figlia a volte sorella di Telecom, a seconda di come tirava l’aria. Quindi, a una società divenuta privata rimaneva l’investimento di decenni fatto con le tasse dei cittadini. Se il tema infrastruttura unica fosse stato affrontato allora, oggi non saremmo qui a porre i problemi che vedremo, soprattutto di governance e strategia. Certamente, però, il valore privatizzato sarebbe stato meno appetibile e avrebbe fatto meno cassa, che era l’urgenza a metà anni 90.
Il secondo corno riguarda una diatriba a dir poco gigantesca: i provider dei servizi Internet si suddividono verticalmente in fornitori di contenuti (over the top, OTP) e fornitori di connessione; questi ultimi hanno sempre reclamato una quota dei proventi OTP in quanto senza di loro non si batterebbe un chiodo. A un certo punto però è diventato chiaro che la strada per allargare i loro utili era aperta dagli OTP mettendo sempre più contenuti e pagandone i costi di marketing operativo e quelli, ben maggiori, di nudging, di influenza, di convincimento del popolo a passare sempre più tempo connessi. In questo senso, la pandemia ha dato un grande, gratuito aiuto.
CDP, dai libretti postali alla fibra ottica
Saltando a piè pari le vicende societarie di Telecom / TIM, oggi quest’ultima è divenuta la controllante complessiva e il suo non è più un acronimo, non è più TIM ma Tim, forse in omaggio a Tim Cook. Oggi Tim ha questo azionariato: la francese Vivendi (cioè facendola corta il governo francese) ha il 23.75%, fondi esteri il 44.27%, italiani misti e flottante il 22.17%, infine Cassa Depositi e Prestiti il 9.81%.
La Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) è un’istituzione finanziaria italiana, società per azioni, controllata per circa l’83% dal Ministero dell’economia e delle finanze e per circa il 17% da diverse fondazioni bancarie. La Cdp opera come una banca di Stato. Per valore totale delle attività, pari a 410.3 mld € nel bilancio del 2020, Cdp viene subito dopo UniCredit e Intesa Sanpaolo.Ha tra le attività principali la partecipazione nel capitale di rischio delle imprese ritenute strategiche per lo sviluppo del Paese. La principale fonte di raccolta delle risorse finanziarie è costituita da tutto il risparmio postale italiano, che Cdp gestisce da 1875. A quest’ultimo, pari a circa 275 mld €, si aggiunge la raccolta obbligazionaria effettuata sui mercati.
Quali sono le altre forze in gioco nella creazione dell’unica rete a banda ultra larga in fibra ottica, che dovrebbe rispondere con 25 anni di ritardo all’esigenza logica di avere un’infrastruttura unitaria e sotto il controllo nazionale delle parti stategiche?
Nell’estate del 2020 fu annunciato un accordo per la realizzazione di una rete unica con lo scopo di ottimizzare gli investimenti per portare la fibra in tutto il territorio nazionale; prendendo atto che due soggetti, Tim e Open Fiber, lavoravano separatamente per portare due reti diverse nelle stesse zone, si pensava a una fusione e conseguente nascita di una società unica: AccessCo. La cosa si è impantanata subito, tanto c’era la pandemia a cui pensare. Tim doveva anche dare vita a FiberCop, una specie di bad company nella quale fare confluire la sua rete secondaria (quella che copre la distanza dall’armadietto in strada alla casa del cliente, che è in rame e non in fibra ottica come quella di Open Fiber, quindi tecnologicamente superata).
Di Tim sappiamo, ma chi era ed è Open Fiber? Si tratta di un operatore all’ingrosso (wholesale) nel mercato italiano delle infrastrutture di rete, controllato attraverso sub-holdings al 60% da Cdp e al 40% dal gruppo Macquarie, banca d’investimenti australiana, la più grande nella gestione di asset infrastrutturali al mondo. Originariamente, nacque Enel Open Fiber SpA (2015) con cui Enel voleva sfruttare la sinergia con la propria rete elettrica, fondendo Open Fiber, sua creatura, con Metroweb in un pooling of interests di Enel e Cdp al 50/50. Nell’agosto 2021, con l’Italia che tentava una seconda estate covid-free, Enel mollava la presa e usciva in favore di Cdp e Macquarie incassando 2.7 mld €.
La tecnologia di Open Fiber è la banda ultralarga in fibra ottica FTTH (Fiber To The Home) con cui coprire l’intero Paese. Open Fiber, operando unicamente all’ingrosso, non eroga direttamente servizi ai clienti finali ma mette a disposizione la propria infrastruttura agli operatori interessati. Tutti.
L’azienda opera nei cosiddetti cluster A e B, quelli a “successo di mercato”, che sono 642. L’obiettivo è di contrattualizzare 282 comuni entro il 2022 tra quelli A e B, cioè in grado di pagare un premium price per i servizi. Open Fiber, inoltre, con un ribasso d’asta di oltre il 50%, ha vinto tutti i 14 lotti previsti nei tre bandi del “piano banda ultrlarga ” indetti da Infratel (la controllata apposita di Invitalia) per la realizzazione della rete nei cluster C e D ossia le ” aree bianche”” a bassa densità di popolazione o “aree a fallimento di mercato”, non lucrative economicamente ma sussidiate e finanziate tramite leva privata, così prevedeva il Winter Package 2017-8 della UE. Il piano prevede l’implementazione della fibra ottica FTTH con velocità fino a 1 Gbit/s per le aree cittadine e gli agglomerati di unità abitative, mentre predispone radiocollegamenti FWA (fixed wireless access), per le zone rurali, poco accessibili o isolate.
La tecnologia Fiber To The Home è la più veloce, in quanto utilizza cavi in fibra su tutto il percorso, incluso il tratto che va dalla centralina all’abitazione del cliente. Un’infrastruttura di questo tipo consente di raggiungere, sia per quanto riguarda il download che l’upload, una velocità massima pari a 10 down / 1 up Gbit/s.
Nel caso dell’ADSL e del FTTC (fiber to the cabinet), i due collegamenti (rame, o rame + fibra ottica), l’ADSL è in grado di offrire velocità massime pari a 20 Mbit/s in download e 1 Mbit/s in upload, la fibra basata su tecnologia FTTC consente invece di raggiungere una velocità in download massima pari a 200 Mbit/s e una velocità in upload massima pari a 30 Mbit/s. Tutto a best effort, ricordiamocelo.
Grazie all’infrastruttura wholesale di Open Fiber, gli operatori italiani hanno quindi l’opportunità di fruire di connessioni a Internet ultraveloci e di offrire ai clienti nuove e più vantaggiose tariffe per la fibra.
Un requiem per il rame
FiberCop allora diviene, come si diceva, la nuova società creata ad hoc nella quale verrà scorporata la parte di rete di Tim che dagli armadietti in strada arriva direttamente nelle abitazioni degli utenti. Fino a questa fase, anche Fastweb è stata partner di Tim nel cablare diverse città attraverso la joint venture Flash Fiber, e sarebbe intenzionata a investire anche sulla rete secondaria di Tim.
La trattativa con il fondo Kkr per capitalizzare FiberCop dava via libera alla realizzazione della rete unica mettendo insieme tutte le infrastrutture Tim con quelle di Open Fiber. Un brodino di consolazione per il fondo americano che ha condiviso quindi l’iter dell’operazione dopo che è svanita l’OPA Kkr su Tim.
Il punto più importante della trattativa è ora proprio quello relativo a chi controllerà una rete di tale rilevanza pubblica. Tim voleva avere la maggioranza ma il Ministero dell’economia esige un’assoluta autonomia e terzietà della gestione e la parità di trattamento di tutti gli operatori. Inoltre, TIM non possedeva la tecnologia e come vedremo non possiede i capitali. Possedeva il mercato e l’immagine di una bandiera, che per il 24% ha però il blu al posto del verde, giusto ?
Contrari a una rete unica pubblica sono i sindacati per i quali la modernità è sempre un azzardo e hanno chiesto al Governo un tavolo per la tenuta occupazionale di un comparto strategico, soprattutto in una fase economica quale l’attuale. I sindacati sarebbero se mai favorevoli a una rete unica la cui maggioranza resti a Tim senza scissioni, ma con un diverso assetto societario rispetto a oggi. E Tim non ha i capitali o politicamente Macron non li concede.
Il 29 maggio scorso i CdA di Open Fiber, Cdp e Tim hanno dato il via libera alla lettera di intenti (memorandum of understanding, MOU, non vincolante) per avviare il processo di integrazione delle reti di Tim e Open Fiber. Si sono aggiunti Macquarie (che come detto detiene il 40% in Open Fiber) e Kkr (nel frattempo divenuto azionista al 37,5% di FiberCop, come pure visto) . Tutto a posto ? No, perché manca un oste con cui fare i conti.
Il futuro di Tim: ma quanto mi ami? ma quanto mi costi?
Tutte le parti si sono date cinque mesi di tempo per arrivare a un accordo vincolante (entro il 31 ottobre 2022). Ora bisogna capire se Tim rimarrà davvero con una quota di minoranza tipo 10% nella nuova entità controllata da Open Fiber, o se venderà tutto. Per il momento la Borsa premia Tim ma poi qualsiasi accordo vincolante sarà soggetto all’approvazione delle autorità antitrust nazionali e dell’UE. E Tim è attesa il 7 luglio al piano industriale da svelare.
Insieme alla rete, Tim trasferirebbe alla nuova società anche debiti e personale. Non basterebbero, pare, meno di due anni per fare tutto lo scorporo. Dopo tale operazione Tim potrà focalizzarsi sulle proprie attività nei servizi di telecomunicazione e trasmissione dati: tutto il business mobile, con le frequenze 5G e il Cloud.
La scissione degli asset di rete attribuirebbe all’infrastruttura un enterprise value (capitalizzazione più debito) di 25 miliardi di euro, di cui 16.7 riferibili ad asset di Tim e 8.6 a Open Fiber, con possibili sinergie (brrr, che freddo …) di 4-5 miliardi. Per assegnare invece un valore alla rete di Tim con il perimetro delineato fin qui (non definitivo però) si stimano di rete 21 miliardi (di cui 5 miliardi l’equity di pertinenza TIM) e il confermento di circa la metà dei 23 mld di debiti, un’enormità per una società così liquida. Se questa volta il progetto si concretizzerà, anche sul piano finanziario puro si conferma che difficilmente la transazione potrà finalizzarsi prima della fine del 2023.
Sulla valutazione degli asset (le due reti e i concambi) si sono già accesi i motori. Il primo a fare i conti è stato l’oste Vivendi, che non appoggerebbe mai la cessione della rete ai valori tra 17 e 21 miliardi. Dall’altra parte c’è Cassa Depositi e Prestiti, artefice dell’intera operazione. Lo stato francese, lo Stato italiano. Al momento infatti lo scenario base è che Tim venda la Netco (compagnia creata per contenere la rete da alienare, a Cdp che poi la fonderà con Open Fiber. Dunque gli interessi di Vivendi, Tim e Kkr collidono con quelli di Cdp e Macquarie.
Si ipotizza che Cassa Depositi e prestiti avrà il 70-77% della nuova società, Macquarie il 12-15%, Kkr il 10-13%, Fastweb l’1-1,5%. Non è escluso inoltre che Tim possa, come si diceva, mantenere una piccola quota nella società, il cui modello però resterà quello di Open Fiber, cioè wholesale only. Nonostante l’iter sia lungo con tanti aspetti ancora da definire, non c’è dubbio che chi guiderà la futura rete unica sarà un uomo Open Fiber / Cdp. Per quanto riguarda la forza lavoro da far confluire nella nuova società, secondo fonti sindacali l’ordine di grandezza è di 20-25 mila dipendenti. E i 4-5 mld di sinergie? I sindacati strizzano.
Ma una volta date le carte e venduti gli zebedei che fine farà Tim? C’è un’ipotesi di infilare Sparkle nella rete ceduta mentre la parte commerciale verrebbe divisa in tre: Tim Brasil, che è già autonoma, l’Enterprise con dentro Noovle, Olivetti IoT, Telsy, e la parte mobile.
Vivendi con il suo 24% in Tim può esercitare un blocco. Ma nei concambi fra Tim e Open Fiber la rete di Open Fiber è tecnologicamente superiore rispetto a quella di Tim, di rame, anche se ovviamente l’azionista di Tim, Vivendi, ha interesse a spuntare un valore più alto possibile mentre Cdp deve contemperare le esigenze perché ha un ruolo in entrambe. Vedi dove va a cacciarsi il diritto.
Pietro Labriola, AD Tim, ritiene che l’intero processo di fusione fra la rete Open Fiber e la rete TIM richiederà non più di 18 mesi. Ma, a suo dire, non è detto che la concorrenza faccia bene agli operatori. Dice Tim: il mercato non richiede più gruppi verticalmente integrati ma società focalizzate su singole attività, singoli servizi. In Italia, secondo Tim, vi sono troppi operatori rispetto alla domanda e la guerra dei prezzi non fa bene a nessuno (quelli italiani sarebbero fra i più bassi in Europa, ma anche i nostri salari però) perché va a deprimere la capacità di tutto il settore di investire in qualità e sviluppo.
Nessuno, a parole, vuole il ritorno al monopolio ma gli operatori terzi sembrano non essere convinti delle promesse del Governo e vogliono garanzie di una rete neutrale e indipendente, non verticalmente integrata. Non si deve tornare al monopolio di Tim o TIM. L’esempio Ferrovie dello Stato inquieta molti.
Per anni in Italia c’è stato un ritardo infrastrutturale, che solo negli ultimi 3-4 anni grazie alla rete wholesale indipendente di Open Fiber è stato parzialmente colmato. Lo dice Franco Bassanini, presidente di Open Fiber (la politica porta nei posti più disparati, passando dalla presidenza Cdp che ha tenuto 7 anni).
Conclusioni: ben venga l’economia di mercato
Chi scrive ci campa. Basta che lo Stato dia regole leali e certe, Keynes non era un cretino. Saremmo ancora qui a discutere come fare l’Autosole se l’Italia del 1955 fosse stata quella di oggi. Tutto il tourbillon di scatole e scatolette dipende dal fatto di non avere considerato la rete come un asset da mantenere pubblico, per motivi di diritto del cittadino e di investimenti pubblici già accumulati. Avremmo forse evitato:
- La presenza di fondi internazionali a cui dell’accesso alla rete degli italiani non importa un fico;
- La presenza di un peso politico straniero in questioni strategiche nazionali;
- L’obbligo di un management a soddisfare un azionista privato anche quando il di lui tornaconto confliggesse con quello nazionale;
- Il soggiacere e ritardare della tecnologia a fronte di un groviglio meramente politico-finanziario.
L’AD Labriola ora dà le carte e poi sarebbe destinato a portare via Tim dalla scena, cambiandole mestiere. Ma succederà così? La tentazione dell’integrazione verticale si spegnerà? E su quali basi l’AD detta ora i tempi, quando tecnologia e capitali sono altrove? E come saranno investiti i soldi della cessione di rete? E, soprattutto, continuerò a vedere gratis i cartoni di Sponge Bob ?