
Giorni fa un giovane militare russo catturato dagli ucraini è stato processato e condannato da un tribunale di Kiev per aver ucciso un civile disarmato. Altri soldati verranno sottoposti a giudizio nei giorni a venire.
Nell’epoca del diritto internazionale bellico moderno, quello creato dopo il fallimento storico-giuridico di Norimberga, non si era mai visto che un Paese belligerante processasse un prigioniero nemico con i propri codici e con i propri giudici, al pari di un criminale comune.
Il diritto internazionale dei conflitti armati è un insieme di regole e di convenzioni che vengono applicate non dai singoli Paesi, che possono avere norme diverse da nazione a nazione, ma dall’intera comunità internazionale. Deve valere per tutti.
La guerra è una tragedia che provoca dolore, morte e distruzione. Al fine di renderla più ‘umana’ dopo le immani tragedie della seconda guerra mondiale la comunità internazionale ha sottoscritto Convenzioni di diritto umanitario, protocolli aggiuntivi e plurimi trattati di proibizione di particolari armi. Parlare di umanità in contesti bellici potrebbe apparire strano e difficile da capire ma norme e regole da rispettare perlomeno limitano quegli eccessi di violenza che sconfinano nei crimini di guerra.
Il crimine di guerra è un atto che viola le leggi del diritto bellico e chi lo commette viene perseguito come criminale di guerra.
Esempi ne sono l’utilizzo di armi vietate, il maltrattamento dei prigionieri, il colpire obiettivi non di interesse militare quali scuole, chiese e ospedali e per punire le violazioni sono stati creati strumenti processuali al di sopra delle parti.
Inizialmente tribunali internazionale ad hoc – Ruanda, ex Jugoslavia – poi una Corte Penale Internazionale, quale organo giuridico sovranazionale permanente idoneo a giudicare gli autori di crimini purtroppo sempre presenti nei conflitti come attualmente ci ricorda quello in svolgimento in Ucraina.
Il processo di Norimberga, pur con i suoi limiti derivanti da una Corte composta solo da giudici dei Paesi vincitori e dall’inderminatezza dei reati contestati, si svolse a guerra terminata e consentì agli imputati la difesa e il diritto di chiamare testimoni . Il sergente russo Sishimarin, cui sono bastate poche udienze per essere condannato all’ergastolo con l’accusa di aver ucciso un civile, non sembra aver avuto quelle garanzie processuali che neppure ad Eichmann furono negate. La guerra legalizza l’uccisione di altri uomini che prendano parte ai combattimenti ma non consente vittime civili. Tuttavia non sempre è agevole distinguere i legittimi combattenti dai civili che possono contribuire in qualche modo all’operatività dell’esercito attraverso il sostegno logistico o informativo. Il tema è stato a lungo dibattuto nell’evoluzione del diritto bellico e secondo uno dei più grandi giuristi internazionali del secolo scorso, il generale dei carabinieri Pietro Verri, non sarebbe mai stato risolto. La Corte Penale Internazionale, istituita con il Trattato di Roma del 17 luglio 1998, ha senz’altro contribuito a tradurre principi astratti in norme penali cogenti e si è dotata di validi strumenti investigativi. Mostra però evidenti limiti a causa della mancata adesione di grandi potenze quali Russia, Stati Uniti e Cina e di Paesi come l’Ucraina che poi sono costretti ad invocarla nei momenti tragici.
La civiltà giuridica pertanto non dovrebbe assecondare quel processo casalingo dall’esito scontato e dovrebbe far sentire la propria voce nei confronti di quei Paesi che non aderendo alla Corte Penale Internazionale hanno preferito tutelare i propri interessi nazionali. I crimini di guerra da chiunque siano commessi vanno perseguiti in modo certo e credibile e non si vorrebbe assistere nuovamente a processi ove da una parte vi sono unicamente i buoni e dall’altra unicamente i cattivi. Solo a ostilità terminate sarà possibile, con il dovuto distacco, accertare la liceità di talune condotte e la criminosità di altre. Lasciamo quindi il compito agli apparati giudiziari internazionali affinché la loro essenza stessa non sia messa a rischio e non si torni all’archeologia del diritto.