
Notizia non freschissima, ma è opportuno riprenderla e condividere qualche considerazione.
Il 18 maggio ultimo scorso si viene informati del provvedimento, firmato da Boris Johnson fra un party e l’altro, che fa entrare in vigore, dal prossimo 30 maggio, il “visto speciale” per i laureati che intendono trasferirsi, per studio o per lavoro, nel Regno Unito. Denominazione ufficiale: “‘High Potential Individual Visa”.
Si tratta di un accesso preferenziale per chi vuole trasferirsi e lavorare in Gran Bretagna purché si attesti di essere molto bravi perché si sono conclusi con successo gli studi in quelle che il governo britannico, con apposita lista, definisce le “migliori università del mondo”. La selezione è avvenuta, applicando algoritmo oggettivo, ovviamente discutibile, alle classifiche stilate da Times Higher Education World University Rankings, la Academic Ranking of World Universities e la Quacquarelli Symonds World University Rankings.
Sono 37, tra università e politecnici (elenco completo)
Netta maggioranza di quelle nordamericane, fra USA e Canada sono 23. 2 in Giappone, 2 a Singapore e 4 in Cina, 1 in Australia. Solo cinque in Europa: EPFL ed ETH, i due Politecnici svizzeri di Losanna e Zurigo, l’Università di Monaco in Germania, quella di Scienze e Lettere di Parigi – ovvero l’ex Ecole Normale Supérieure – e il Karolinska di Stoccolma. Italiane zero. Siamo in buona compagnia visto che ne mancano tante e di chiara fama, vedi La Sorbonne di Parigi con i suoi 3mila e 400 docenti-ricercatori.
Chi ha studiato in una delle 37 istituzioni della lista sarà facilitato nell’ottenimento del visto preferenziale che, con il modico investimento di 715 sterline, permette di lavorare nel Regno Unito per due anni, che diventano tre se in possesso di un dottorato di ricerca (PhD). Per farlo non dovrà avere già in tasca un’offerta di lavoro. Non dovrà trovare un garante. Dovrà solo dimostrare di conoscere la lingua inglese e di avere un piccolo gruzzolo -solo 1.270 sterline- per sopravvivere mentre cerca occupazione.
Fermo restando che il visto in questione era già cosa nota, previsto fra le conseguenze della Brexit e pieno diritto del governo britannico, in molti in Italia hanno gridato allo scandalo. Noi, il paese con la più antica università europea, noi primi al mondo per gli studi classici, con l’università pubblica “La Sapienza” di Roma, fra i primi dieci con la privata “Università Commerciale Luigi Bocconi” di Milano, noi, popolo di scienziati, noi esclusi! Se si è italiani e si è studiato in una delle top 37, nessun problema. Se si è studiato in Italia non si entra.
Inutile scandalizzarsi. La grande differenza fra le 37 istituzioni della lista e le università italiane è che la loro è un’eccellenza di sistema, mentre le nostre eccellenze sono sempre caratterizzate da una geometria a macchia di leopardo. Un leopardo di dimensioni ragguardevoli: 3 politecnici, 63 università pubbliche, 3 università non statali promosse da enti pubblici, 21 università non statali promosse da enti privati, 11 università telematiche. Passando in rassegna le 37 università della lista UK è possibile dire quale sia la specialità di ciascuna di esse. Provate a farlo con quelle italiane. Tutte fanno tutto. Finanziamenti costretti a disperdersi in mille rivoli e non si riesce ad arrivare a massa critica. Non si compete a scala internazionale e non si entra nei primi posti delle classifiche. Primi si fa per dire, visto che si celebra se si è fra le prime cento, magari novantesima. Non è sempre stato così. La Scuola Normale di Pisa rappresentava l’eccellenza nazionale. Il passato è d’obbligo.
Oggi, in Italia, l’eccellenza non è dell’istituzione, ma di quei soggetti eccezionali che creano intorno a loro una scuola, una eccellenza riconosciuta a scala internazionale dalla loro capacità di organizzare e gestire, fare ricerca, insegnare, per il loro Reputation Index, l’impatto che hanno sul loro mondo di appartenenza. Studiare bene nelle 37 della lista è facile. Chi si iscrive è stato selezionato, scelto e viene coccolato, protetto, facilitato, Sono il meglio di quanto ci sia nei paesi di appartenenza. Una percentuale minima del totale. Prendiamo il caso degli USA. Fra college e università ci sono circa 5300 istituzioni. Quelle considerate di eccellenza non sono più di una decina e costano, Molto. Dieci, venti volte quanto si paga in Italia nelle università pubbliche. Le altre 5000 mila e passa sono molto più accessibili in termini economici. Per tutte vale la regola che si fa sempre riferimento all’anno di iscrizione, non a quello di laurea, perché il “fuori corso” non è contemplato. Si condividono l’etica e i valori a essa associati. Copiare un compito o imbrogliare a un esame comporta l’immediata espulsione. Stessa situazione in Cina: 1500 università pubbliche, gratuite, dove si entra per merito. Non sono gli studenti a selezionare l’università da frequentare, ma il risultato del loro esame di Maturità. Quelle eccellenti si contano sulle dita di una mano o poco più. Ben diversa la situazione nel Bel Paese. Di meritocrazia ce n’è poca. Gli esami di ammissione sono limitati ad alcuni indirizzi di studio. Copiare è considerato se non un diritto, manifestazione di furbizia positiva. Tanto, se ti pescano con le mani nel sacco, al massimo ci si deve sorbire una ramanzina, anche quando si copiano per intero, parola per parola, intere tesi di laurea. Quando non le si fa compilare, a pagamento, da un complice affamato. Tanto il relatore firma e nemmeno legge.
Studiare in Italia richiede l’acquisizione di competenze e abilità darwiniane, da corso di sopravvivenza. Solo i migliori sopravvivono e si laureano in corso. Ci si laurea nonostante la burocrazia universitaria, l’assenza dei docenti di riferimento, l’ineffabilità del relatore di tesi. Le votazioni finali sono spesso casuali, aleatorie, basate su criteri di giudizio che fanno sospettare l’uso intensivo di sostanza psicotrope da parte della commissione di laurea. Ovvio, non è sempre così. Ci sono le eccezioni che purtroppo confermano la regola. Se si è molto bravi, motivati, un poco fortunati, si riesce a studiare molto bene, con un relatore che non solo ti segue, ma ti è maestro.
Si è scritto che “la Gran Bretagna snobba le università italiane”. Non si tratta di snobismo. Il fatto è che se veniamo confrontati non facciamo una bella figura. Ci piaccia o no. I nostri tanti atenei non sono fa i più prestigiosi al mondo. Ogni tanto c’è un dipartimento che lo è. Più per caso che per strategia e pianificazione.
Invece di lamentarsi sarebbe ora di rimboccarsi le maniche per tornare a essere quello che eravamo. Secoli fa. Forse l’unico modo è quello tipico del mondo digitale. Spegnere tutto e riavviare il sistema. Da zero. L’unico criterio da adottare è la competenza e il merito, prendendo dalle esperienze estere il meglio, continuando a garantire a tutti, legato al merito, l’accesso all’istruzione superiore, condendo il tutto con la nostra incredibile tradizione.
Oggi del tutto sprecata.