
Il tema arcinoto alle cronache come “truffa dei diamanti” sembrerebbe offrire ormai ben pochi spunti per ulteriori approfondimenti. Si tratta peraltro di uno dei pochissimi argomenti di cui credo di avere una discreta conoscenza: forte di tale presunzione ho seguito il ponderoso dipanarsi di questa vicenda distrattamente e con un filo di noia.
Conoscevo piuttosto bene fatti e personaggi coinvolti, soprattutto i personaggi avendo avuto a che fare direttamente con più di uno tra loro.
L’interesse che mi suscitavano le varie narrazioni era pertanto molto modesto e mai avrei pensato di scriverne sembrandomi la questione, ancorché grave nelle conseguenze, piuttosto semplice e banale nella sua articolazione.
È bastato però operare un cambio di prospettiva per inquadrare questo contesto in modo completamente diverso.
Ho iniziato ponendomi la domanda: se di tutta la vicenda non sapessi assolutamente nulla, capirei cosa sia realmente avvenuto basandomi su tutto ciò che è stato rappresentato dai media (principalmente TV e stampa, finanziaria e non) o che è emerso dalle indagini della Magistratura tuttora in corso?
La risposta è no, ma non perché quanto narrato finora non sia vero, tutt’altro!
I resoconti apparsi sulla stampa sono millimetricamente esatti e gli approfondimenti televisivi, Report in testa, sono stati estremamente precisi ed incisivi.
Ma da tale imponente mole di informazioni l’uomo della strada che si avvicina per la prima volta a questi accadimenti che grado di conoscenza riuscirà a raggiungere?
Ho provato a chiedere un po’ in giro e le risposte che ho avuto si possono riassumere così: si, so che c’è stata una truffa per dei diamanti venduti dalle banche, un sacco di gente ci ha rimesso dei soldi e la Magistratura ha inquisito diverse persone. Punto.
Questa risposta mi ha rafforzato nel convincimento che i fatti, che comunque hanno segnato profondamente la vita dimolti nostri connazionali, andassero rappresentati in un modo un tantino più organico, distinguendo i diversi ambiti interessati.
Qui è subentrato lo smarrimento perché ho scoperto sulla mia pelle qualcosa di apparentemente paradossale e cioè che è più facile raccontare un argomento che si conosce solo per grandi linee rispetto a tematiche che invece si padroneggiano meglio.
In questo secondo caso, infatti, si tende a dare per scontati tutta una serie di presupposti che non lo sono affatto e che viceversa risultano essenziali per rendere compiutamente la portata di ciò che si vuole raccontare.
Iniziamo quindi dal titolo che ormai è utilizzato abitualmente per connotare questa vicenda: la truffa dei diamanti.
Detta così sembrerebbe il classico “pacco” tirato spacciando fondi di bicchieri per diamanti o non consegnando affatto quanto pattuito. Ma così non è: i diamanti esistevano e corrispondevano esattamente al grado di purezza ed alla caratura riportati nel contratto di acquisto.
Venivano puntualmente consegnati sigillati in blister o, su richiesta del cliente, conservati nel caveaux della società collocatrice.
Allora dove sono le irregolarità?
Per capirlo occorre ripercorrere tutto il processo partendo dal dichiarato della società collocatrice.
A monte esisteva un contratto di collaborazione commerciale in base al quale era possibile acquistare i diamanti direttamente in banca. Fin qui nulla di irregolare, potendosi connotare questa attività come semplice fornitura di servizi, analogamente alla vendita di un telepass. Qualora il cliente avesse voluto disfarsi del diamante, la società si impegnava a riacquistarlo al prezzo riportato in una quotazione “ufficiale” riportata sul Sole 24 Ore.
Tutto questo ovviamente aveva un prezzo che, almeno sulla carta, trovava la sua giustificazione nel fatto che la qualità del diamante era garantita, veniva consegnato in banca evitando i rischi ed il disagio di andarselo a cercare sul mercato ed in più poteva essere smobilizzato in qualunque momento secondo una quotazione “ufficiale”.
Ma qui iniziano i fraintendimenti, emersi e chiariti solo quando il bubbone era ormai esploso.
Innanzitutto non c’era un impegno contrattuale al riacquisto da parte della società collocatrice, bensì una generica disponibilità ad incrociare la richiesta di vendita con una di acquisto di pari consistenza e caratteristiche.
Il che tradotto voleva dire che se nel momento in cui si decideva di liberarsi del diamante era giacente presso la società una richiesta di un diamante di pari caratura e purezza, bene…..altrimenti ci si doveva arrangiare o aspettare.
Non esisteva pertanto un mercato ufficiale nel quale la curva con pendenza negativa della domanda incontrava la curva con pendenza positiva dell’offerta ad un determinato livello di prezzo, in quanto quest’ultimo era arbitrariamente definito dalla società collocatrice.
L’altro aspetto ambiguo riguardava appunto la cosiddetta “quotazione ufficiale pubblicata sul Sole 24 ore” che era invece una semplice pagina a pagamento commissionata dalla società collocatrice e non una quotazione riconosciuta come quella, ad esempio, riportata dal listino Rapaport.
Peraltro le quotazioni riportate sulla pagina in questione erano costantemente in ascesa e più alte di quelle ufficiali.
Inoltre al momento dell’acquisto venivano previsti contrattualmente dei costi di disinvestimento decrescenti che erano vere e proprie penali per dissuadere dallo smobillizzare l’investimento prima di 7 anni.
Questo meccanismo ha funzionato abbastanza bene per diverso tempo e finché in linea di massima venivano rispettate queste condizioni:
1) mark up sul prezzo di mercato relativamente controllato;
2) clienti che investivano in questa tipologia quote marginali del loro patrimonio e che quindi potevano tranquillamente posizionarsi in un’ottica di lungo termine senza improvvise necessità di disinvestimento;
3) un livello di domanda molto alto che era in grado di assorbire le richieste di smobilizzo, inizialmente piuttosto contenute.
Rispettati questi punti il cliente non si accorgeva della vulnerabilità del processo perché andando a riconsiderare l’investimento dopo 8/10 anni le penali non venivano più applicate, la pietra per fisiologico andamento di mercato aveva generalmente incrementato la sua quotazione e quindi più o meno valeva il suo valore reale.
A quel punto se il cliente decideva di smobilizzare il suo diamante, la cosa risultava relativamente semplice per queste ragioni:
a) la domanda di nuovi acquisti era sostenuta il che consentiva di individuare un compratore abbastanza facilmente;
b) il diamante veniva ritirato ad un prezzo di mercato (meno eventuali penali decrescenti) per essere ricollocato ex novo con un nuovo sensibile mark up che generava un elevato margine per la società e cospicue commissioni per le banche;
c) il cliente che aveva mantenuto il possesso oltre i sette anni riprendeva più o meno il suo capitale e, se era fortunato, poteva anche conseguire un modesto guadagno.
Allora dov’era il problema? Sembrerebbero tutti felici e contenti.
Per capirlo dobbiamo stringere un po’ il cerchio della nostra esposizione iniziando a focalizzare l’operato delle banche.
Il margine di intermediazione delle banche (che sarebbe l’equivalente del fatturato di un’azienda produttrice di beni o servizi) è composto dal margine interessi (differenziale tra il tasso di raccolta e quello di impiego) e dalle commissioni per servizi.
In una fase di tassi di riferimento BCE prossimi allo zero e scesi sotto lo zero nel giugno 2014, le banche facevano moltissima fatica a conseguire un margine dalla gestione del denaro, che veniva ulteriormente eroso dal credito deteriorato.
Tale andamento di tassi inoltre non consentiva alle fabbriche prodotto di realizzare proposte finanziarie che esprimessero un’adeguata redditività e perciò anche il margine da commissioni languiva.
Le elevate commissioni generate dal collocamento dei diamanti quindi, anche se in modalità upfront e non running (cioè venivano percepite una tantum all’atto del collocamento, ma non generavano ricavi continuativi durante l’arco di vita dell’investimento) erano una vera boccata di ossigeno per i conti economici delle banche.
Per tale ragione la pressione su tutta la filiera commerciale era sostenuta ed il peso delle commissioni derivanti dal collocamento dei diamanti sulle matrice mensili (cioè il mix degli obiettivi reddituali da conseguire mese per mese) diventava sempre più rilevante.
I guai sono iniziati quando vedendo che il cavallo beveva, qualcuno ha pensato bene di affogarlo e precisamente:
– le società collocatrici hanno alzato il sovraprezzo iniziale e conseguentementeil ristoro a favore delle banche;
-le banche hanno aumentato le pressioni commerciali.
Il collocamento però diventava sempre più difficile perché il target di clientela potenziale andava assottigliandosi.
Per raggiungere gli obiettivi di vendita i gestori in molti casi hanno iniziato a proporre l’investimento anche a clientela di modesto standing che avendo disponibilità limitate faceva fatica a tenersi l’immobilizzo per almeno sette anni.
Le richieste di disinvestimento sono quindi aumentate in modo più che proporzionale rispetto alle nuove sottoscrizioni.
Le notizie sulle sensibili perdite registrate in fase di smobilizzo da taluni clienti hanno iniziato a filtrare sui media innescando la corsa al disinvestimento.
Le società, illiquide, non sono riuscite a far fronte alla massiccia ondata di ordini di smobilizzo e sono saltate.
Il tutto è stato condito dai media con storie di corruzione ai vari livelli per favorire questo business, ma non credo che questo si sia verificato in modo significativo e comunque se qualcosa c’è stato si è trattato di effetto e non causa.
La motivazione reale, soprattutto ai livelli più bassi (gestori della clientela, titolari di filiale) era quella di fare bella figura con il vice-sotto- sostituto-assistente-portaborse del capetto di turno, che era solitamente un battitore di tamburo, spesso senza alcun ruolo formalizzato, di scarsissima caratura professionale che scassava gli zebedei martellando cinque volte al giorno in testa al consulente/venditore per sapere quanto avesse collocato di questo e quanto di quello.
Questi soggetti, anche se insignificanti da un punto di vista funzionale e gerarchico (ricordo che ogni tanto qualche sindacalista veniva a segnalarmene qualcuno ed io non sapevo nemmeno chi fosse e dove si trovasse) erano in realtà molto temuti perché redigevano delle liste di proscrizione segnalando in modo del tutto arbitrario i buoni ed i cattivi a tutti i vari sotto/vice/capi che avevano sopra con il risultato di condizionare pesantemente se non la carriera, la qualità della vita lavorativa del malcapitato gestore.
Non amo servirmi dell’inglese, ma nel corso di una riunione riassunsi questomodus operandi con la frase “too many chiefs and not enough indians”.
Finora quello che ho raccontato può risultare più o meno interessante, ma non credo evidenzi con chiarezza gli ambiti di responsabilità.
Proviamo a vederli insieme.
SOCIETÀ VENDITRICE
Le responsabilità maggiori sono quelle di non aver operato con trasparenza e di non avere valutato adeguatamente l’entità dei rischi assunti in relazione alla situazione di liquidità puntuale e prospettica.
In questo c’è stato sicuramente dolo, ma i danni sono stati accresciuti a dismisura dall’ignoranza manageriale presente a tutti i livelli nelle società collocatrici, in particolare in quelli apicali.
Si trattava infatti di soggetti molto modesti (almeno quelli con cui ho avuto a che fare personalmente) che si sono trovati tra le mani un giro d’affari stratosferico senza avere la minima cognizione o formazione tecnico- giuridica sulla valutazione dei rischi assumendi.
Sapevano più o meno come procurarsi i diamanti, ma non andavano molto oltre in termini di complessità di pensiero manageriale.
Agivano prevalentemente un ruolo di presidio della relazione con i loro interlocutori lato banche, dai quali erano ben considerati per l’entità dei ristorni commissionali che riuscivano ad assicurare.
BANCHE
Qui il tema diventa più sottile.
Se le banche si fossero limitate a collocare un prodotto su richiesta della clientela né più né meno come avviene con i telepass, non avrebbero avuto alcuna responsabilità, cosi come nessuno penserebbe mai di incolpare la banca che ha consegnato un telepass nel caso che quest’ultimo non funzionasse ed il cliente si andasse a schiantare sulla sbarra del casello che non si è alzata.
Il punto è che le banche, soprattutto a livello dei gestori, promuovevano la vendita dei diamanti contattando i clienti a questo scopo il che apriva due fattispecie di criticità:
1) reputazionale: il cliente poco o punto sapeva degli accordi a monte con la società collocatrice, per lui la proposta veniva dalla banca, si perfezionava nei locali della banca, a cura di un gestore che magari conosceva da anni e di cui si fidava ciecamente;
2) la vera irregolarità formale e sostanziale commessa dalle banche si rileva nel momento in cui il diamante veniva proposto al cliente come “prodotto di investimento”.
Infatti qualunque sollecitazione di investimento prevede l’obbligo di predisposizione di un prospetto informativo che deve essere validato dalla Vigilanza, nella fattispecie dalla Consob.
È del tutto comprensibile quindi che, al di là delle responsabilità in punto di diritto, il cliente abbia attribuito le colpe del disastro in cui era finito alla banca.
A onore di queste ultime va detto che non si sono tirate indietro come avrebbero potuto attribuendo ogni responsabilità alle società collocatrici, fallite nel frattempo.
Hanno infatti messo mano al portafoglio procedendo ad un seppur parziale ristoro del danno subito dai sottoscrittori.
Questo ha consentito di mitigare il danno reputazionale e, soprattutto, di ridurre il rischio di litigation a presidio del quale sarebbero stati necessari accantonamenti ancora più imponenti di quelli effettuati.
La mole di clienti coinvolti e l’entità degli importi complessivi rende pressoché impossibile presentare in questa sede un quadro di sintesi.
Possiamo però immaginare tre macrocategorie:
a) clienti in possesso di diamanti da poco tempo;
b) clienti in possesso di diamanti da molto tempo (10 anni);
c) clienti non materialmente in possesso di diamanti in quanto custoditi nei caveaux della società collocatrice.
I primi tutto sommato hanno limitato i danni incassando un parziale rimborso che in linea di massimo ha sterilizzato il mark up riallineando il valore della pietra a quello di mercato e tenendosi comunque il diamante.
I secondi, dato il tempo trascorso e la conseguente prescrizione, non hanno avuto rimborsi, ma possiedono comunque una pietra che ancorché pagata troppo 10 anni fa, oggi vale più o meno quanto pagato in origine.
I terzi sono quelli messi peggio di tutti essendo le società presso cui erano custoditi i diamanti fallite nel frattempo.
Per poter esercitare i loro diritti hanno pertanto dovuto insinuarsi al passivo della procedura concorsuale e credo sia sufficiente questo per intuire in quale marasma si siano ritrovati.
Relativamente al punto 2) potrebbe sorgere la legittima domanda sull’operato della VIGILANZA.
Più di uno si è posto l’interrogativo sul fatto che uno tsunami di questa portata sia emerso grazie a delle inchieste televisive e non per un’azione strutturata di quelle due prestigiose e poderose corazzate che sono la Banca d’Italia e la Consob.
Qui si apre un altro scenario tipicamente italico.
La Banca d’Italia, infatti, chiamata in causa da Report si rifiuta di partecipare alla trasmissione opponendo il segreto istruttorio e d’ufficio.
Poco dopo però ritiene evidentemente superabili tali impedimenti perché in data 15 dicembre 2021 ribadisce la correttezza del proprio operato con un comunicato nel quale afferma che la vendita di diamanti non si configura come un prodotto finanziario e quindi non rientra nel perimetro dei compiti sanzionatori della
Vigilanza secondo il TUF del 1998.
Elenca poi tutte le attività che ha comunque avviato in termini di moral suasion nei confronti delle banche e di informativa verso le autorità competenti, in primis Magistratura ed AGCM.
Ora ho troppo rispetto per una istituzione prestigiosa come la Banca d’Italia per commentare questo comunicato, peraltro giuridicamente ineccepibile.
Mi permetto però di osservare che il clima incandescente che si era creato intorno alla vicenda avrebbe forse meritato un passo più felpato ed accorto.
Infatti questa sortita puntuta ha da un lato prestato il fianco alla testata televisiva che ha puntigliosamente osservato che tra i compiti della Banca d’Italia vi è quello di assicurare la tutela della clientela bancaria, la trasparenza e la correttezza dei comportamenti degli intermediari nei confronti di clienti, famiglie e imprese ed il rafforzamento degli strumenti di protezione individuale dei clienti…
Dall’altro ha messo in testa al barista davanti casa mia che se le banche un giorno si mettessero a vendere armi o eroina, potrebbero farlo nell’indifferenza della Vigilanza non rientrando tali fattispecie tra i prodotti finanziari.
Gioco ancora più facile nello sfilarsi lo ha avuto la Consob che seguendo la stessa linea durante l’audizione presso la Commissione Parlamentare di Inchiesta ha in sintesi sostenuto di non aver potuto esercitare le proprie prerogative sanzionatorie non configurandosi il diamante come un prodotto finanziario.
Infatti, come avevo già anticipato al punto 2) del paragrafo relativo agli ambiti di responsabilità delle banche, se lo fosse stato sarebbe stato inserito nell’albo prodotti delle banche previa predisposizone del prospetto informativo e la vendita avrebbe avuto luogo solo dopo la profilatura MIFID del cliente acquirente con conseguente certificazione della sua propensione al rischio insito nell’operazione.
Ma per onestà intellettuale prima di chiamare in causa la Vigilanza Istituzionale.(Bankit, Consob, AGCM) va detto che all’interno delle banche operano le cosiddette Funzioni di Controllo che per inciso sono l’Audit, la Compliance ed il Risk Management.
Nei modelli organizzativi più diffusi l’Audit riporta direttamente al CdA (il che vuol dire che su mandato di quest’ultimo può effettuare verifiche anche sul Capo Azienda).
Semplificando al massimo a scopo esplicativo le linee di intervento di queste tre funzioni avremo che in prima battuta l’Internal Audit nel corso delle attività di verifica sulla Rete individua un’attività che ritiene meritevole di approfondimenti.
La segnala quindi alla Compliance che verifica se l’attività segnalata è, appunto, compliant, cioè in linea con policy, normative, processi e procedure aziendali nonché con i disposti del Regolatore e del Legislatore.
In presenza di disallineamenti di leggera/media entità viene varato un piano di “remediation” (che sarebbero sistemazioni con relative tempistiche) sulla cui attuazione vigila insieme all’Audit.
Nei casi più gravi la Compliance delimita il perimetro delle possibili “litigation” e le probabilità che la banca risulti soccombente in un eventuale contenzioso interessando il Risk Manager che quantifica statisticamente il “worst case”, che sarebbe lo scenario peggiore che la banca potrebbe subire, suggerendo la quota di accantonamento prudenziale da effettuare in bilancio.
A prima vista si potrebbe supporre che questa robusta linea di presidio sia stata perforata ed il fatto che alcuni responsabili di tali filiere siano usciti di scena senza troppo clamore lo confermerebbe.
Del resto lo diceva anche una canzone di Lucio Dalla….senza troppo rumore qualcuno sparirà…però aggiungeva: saranno i troppo buoni e i cretini di ogni età.
Il che lascerebbe supporre che qualcuno che non sia né buono né cretino sia tutt’ora in circolazione.
Non so se ho raggiunto lo scopo che mi ero prefissato di realizzare un mini testo divulgativo su questo tema, ma credo che chi ha avuto la pazienza di leggere fin qui si sarà quanto meno reso conto della complessità degli accadimenti e che la rappresentazione mediatica ha necessariamente presentato solo la punta dell’iceberg.
Manca ancora un pezzo e riguarda l’ingresso in campo della Magistratura.
Qui mi fermo perché credo che i procedimenti siano ancora in corso.
Mi limito solo ad evidenziare lo sconcerto che ha pervaso gli addetti ai lavori lato banche derivante dalla difficoltà di comprendere i criteri del fuoco selettivo che, in termini di avvisi di garanzia, ha colpito alcuni soggetti risparmiandone altri.
Concludo rivolgendo un pensiero alle vittime di questa situazione: in primis i clienti, certamente. In secundis quei colleghi delle prime linee commerciali i quali intuendo che ciò che gli veniva richiesto di fare non era etico hanno anteposto la tutela del cliente opponendosi ai diktat dei vice-sotto- sostituti-assistente-portaborse del capetto di turno, pagandone spesso le conseguenze sulla propria pelle.
Per loro non è stato previsto alcun ristoro, nemmeno sotto forma di un generico “Bravi! avete fatto bene a comportarvi così, mentre sbagliavano quello che vi tartassavano rendendovi la vita difficile ed esponendovi al pubblico dileggio durante le cosiddette riunioni di monitoraggio commerciale”.
E allora, anche se non ho più alcuna autorità formale in quel mondo in cui ho vissuto per 42 anni attraversando 10 banche diverse…glielo dico io: bravi, avete fatto bene!