
Il quotidiano giapponese Asahi Shimbun ha pubblicato la notizia che da 25 anni la Japan Steel Works Ltd, leader mondiale nella produzione di acciaio, falsifica i dati sulle ispezioni dei componenti inviati alle centrali elettriche.
Fa scalpore il fatto che la notizia non sia relegata alla stampa tecnica e forse non sarebbe uscita neanche su quella se non fosse stato per un “whistleblower”, che ha portato a galla la verità.
Non sappiamo quanto questa notizia possa scalfire la percezione del Giappone come paese di stakanovisti, attenti ai dettagli, scrupolosi nella scelta dei materiali e precisi nell’esecuzione dei processi e delle lavorazioni.
Dopo la seconda Guerra Mondiale, il Giappone si era conquistato una fama non lusinghiera di “gran copiatore” di prodotti fotografati in tutto il mondo. Con il tempo, la reputazione si è trasformata in quella di fornitore di prodotti affidabili, solidi, ben costruiti e con ottimo rapporto qualità-prezzo.
Dopo una notizia come quella di oggi, come si regolerà ad esempio un’azienda che vuole acquistare strumenti di precisione dal Giappone? Dovrà intensificare le verifiche tecniche per confermare la corrispondenza dei materiali alle specifiche dichiarate dal produttore? Dovrà chiedere report aggiornati di ispezione e di certificazione di terze parti indipendenti e riconosciute? Di certo sarà più difficile per molte aziende comprare a scatola chiusa un prodotto giapponese perché “dal Giappone, si sa, arrivano prodotti solidi”
Warren Buffett diceva “Ci vogliono 20 anni per costruire una reputazione e 5 minuti per distruggerla” e si riferiva alle aziende, ma anche i paesi o, per meglio dire “i Sistema Paese” devono fare i conti con la loro reputazione. Se da un lato le aziende devono certificare qualità, sostenibilità e governance, anche i paesi devono sapersi porre come attrattori di investimenti, commercio e turismo. Ogni paese diventa un marchio che deve ragionare in termini di soddisfazione dei suoi stakeholders: turisti, cittadini, investitori
Non a caso ogni anno US News & World Report pubblica la “Best Countries Rankings” una classifica dei migliori paesi al mondo stilata in base a tanti criteri fra cui la qualità della vita, la facilità di aprire un’azienda, approccio alla diversità, influenza economica e culturale, turismo.
Nel 2021 è proprio la nota introduttiva della classifica che centra in pieno l’importanza della reputazione: “La globalizzazione ha esteso la presenza dei paesi oltre i loro confini fisici. Il report di quest’anno si basa su come le percezioni globali definiscono i paesi in base a caratteristiche qualitative, percezioni che possono influenzare il commercio, i viaggi e gli investimenti e avere un impatto diretto sulle economie dei paesi”
Un altro fattore che influisce sulla capacità di un paese di attrarre investimenti è il livello di corruzione e per misuarlo c’è il “Corruption Perceptions Index” di Transparency International, la coalizione globale contro la corruzione. Il Giappone è da anni fra il 14° e 18° posto, nonostante scandali che avevano portato alle dimissioni di primi ministri, o forse proprio per quello, se intendiamo la certezza della pena come indice di affidabilità. L’Italia, tanto per non fare nomi, è al 42° posto, più virtuosa del Botswana ma meno del Costa Rica.
Tra l’altro la tutela dei “whistleblowers”, ovvero di chi segnala illeciti in un’azienda o in un’amministrazione, da ritorsioni (licenziamenti, demansionamenti, ecc) è stata introdotta dal legislatore per dotare le aziende e le pubbliche amministrazioni di sistemi di prevenzione alla corruzione, facilitando l’emersione di pratiche illecite.
I paesi in cima alla classifica “Best Countries Rankings” lo sono per carattere, tradizione, volontà politica, o esiste addirittura una strategia di sistema paese? Materia da approfondire. I paesi ai piani bassi della classifica incrociano le dita e sperano che siano le aziende stesse o i mercati a decidere il futuro del paese.