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Brindisi, Lavrov, spie russe in TV: un dibattito senza regole

Tra sostenitori e detrattori continua a far discutere l'intervista di Giuseppe Brindisi al Ministro degli Affari esteri russo Sergej Lavrov

Lavrov ha fatto un comizio o un’intervista? Al dibattito avrebbe dovuto partecipare la nostra classe politica rappresentata in Parlamento e al Governo, non per esprimere opinioni o criticare, ma per assumersi le conseguenti responsabilità normative e di moral suasion verso il mondo dei media evidentemente senza regole e non lasciando pilatescamente a giornalisti, testate, emittenti pubbliche e private, assistite o meno dall’Ordine dei giornalisti, il compito di trovare tra di loro una soluzione che possa accontentare più o meno tutti, compresi gli ospiti incendiari dei talk show. Certo ci saranno le audizioni al COPASIR, ma a cosa possano portare è difficile a dirsi, in uno Stato democratico che nella sua Costituzione giustamente prevede: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. Un articolo scritto quando non esisteva né la televisione né internet. 

Eppure qualcuno avrebbe potuto seriamente, se non dovuto, chiedere al Sistema Italia, al di là del guasconesco auspicato intervento della neuro-deliri, a chi potrebbe, stante la legge che non c’è, rivolgersi un giornalista, quando si è coinvolti in una guerra con il Paese dell’ospite, per sapere se questi sia una spia o, qualora lo si sappia già, se esistano norme capaci di interdire uno scoop. Nessuna domanda nessuna risposta. Il tema del contendere è stato tutt’altro e tutto autoreferenziale alla categoria.

Così, mentre le parole di Lavrov facevano il giro del mondo e continuano a farlo rimbalzando da ogni media, suscitando sdegno e biasimo, gli attacchi a Brindisi da parte di colleghi, politici e ben pensanti si sono concentrati su lezioni di tecnica della “vera” intervista e sulle conseguenti regole d’ingaggio che loro avrebbero imposto se fossero stati scelti per condurla. Curiosamente tutti questi critici, forse per modestia, hanno citato un solo esempio di grande capacità dell’intervistare, quello di Oriana Fallaci che scontenta dell’andamento dell’intervista all’ayatollah Khomeini ai saluti per protesta lasciò cadere lo chador “stupido cencio da medioevo”. Sia come sia la sentenza è stata emessa: “Un comizio, non un’intervista con contraddittorio”. Qualcuno dei colleghi è persino ricorso all’interpretazione del linguaggio del corpo per trarne ulteriori certezze sull’assoluta subalternità dell’intervistatore: quel continuo annuire è un messaggio subliminale che suggerisce al pubblico assenso verso Lavrov. Anche il mondo politico è stato critico tanto che persino Draghi ha trovato da ridire in un discorso ufficiale sul modo in cui è stata condotta questa intervista.

Sicuramente Giuseppe Brindisi, con 31 anni di carriera in Mediaset, per la sua attitudine personale e per il suo conseguente porgersi gentile e quasi timido, tanto da essere soprannominato “tachipirina”, è un giornalista un po’ fuori dal coro rispetto alle altre conduttrici e conduttori dei vari talk show; tutte e tutti orientati al giornalismo di intrattenimento “strillato” o “enfatico” e, diciamo, più aperti, direttamente o tramite i loro ospiti, al “complottismo”. 

Eppure le domande Brindisi, a contarle, le ha fatte e non sono poi state così poche, addirittura 20, e anche le “interlocuzioni” non sono mancate come appunto quella sulla “denazificazione”, madre della gaffe di Lavrov. Numeri che rispetto a quelli di altri giornalisti televisivi, conduttori di speciali e talk show, non lo fanno certo sfigurare. I critici che, salvo rare eccezioni puntualmente collegate alla posizione del successo contingente nella curva di Gauss del politico intervistato, non brillano e non hanno mai brillato per il loro giornalismo “anglo-sassone”, genere che in Italia non si è mai veramente sviluppato ed è inutile cercarlo o invocarlo, soprattutto in TV dove le vere regole d’ingaggio sono “fare spettacolo” – a tutti i costi – per l’audience e le conseguenti entrate pubblicitarie. 

Anche la tecnica di far esprimere l’intervistato compiutamente senza fastidiose e distorsive interruzioni è risultata vincente se è vero che ha avuto l’effetto più inimmaginabile e devastante per un navigatissimo personaggio della politica mondiale, quello di farlo addirittura “incartare” da se stesso sull’antisemitismo. Ridicolo credere che Lavrov abbia tirato in ballo la storia dell’Hitler ebreo per – come vorrebbero alcuni sottili analisti italiani – accattivarsi i nostrani “cospirazionisti”, inimicandosi però gli ebrei di tutto il mondo e in particolare lo Stato di Israele. Se non è una “Vóce del sén fuggita” al cagnesco Lavrov, potrebbe essere però un avvertimento “pubblico” a Israele in linea con la strategia del “Terrore” voluta dalla Propaganda russa. E’ lo stesso Putin a chiarirlo, dopo le dure reazioni del ministro degli Esteri Yair Lapid che ha convocato subito l’ambasciatore russo in Israele, nella sua telefonata di scuse al premier Naftali Bennett. Un altro successo di Brindisi. 

Ugualmente tristi per il giornalismo italiano e per tutti noi a prescindere se siamo o no filo-putiniani o ucraini, le parole di denigrazione, spuntate fuori nel dibattito, da parte di ora pensionati “corrispondenti”, comodamente a casa, verso i giovani inviati, tra l’altro numerosissimi e non solo giovani, in Ucraina; tacciati di essere “impreparati” e, quindi, per questo condotti per mano dalla propaganda ucraina. Critici, oggi come allora, “intellettuali rivoluzionari” protetti però dalla libertà di stampa assicurata dalla Democrazia occidentale e, in particolare per loro, italiana. Tanto vittime del loro ideologismo da non accorgersi di una grande differenza tra il loro lavoro e quello di questi “giovani”: allora l’Italia non era impegnata direttamente a sostenere un Paese europeo invaso dalla Russia. Piaccia o non piaccia questi giovani rischiano la pelle e sono i nostri occhi, se sono troppo “eterodiretti” (parola cara alla vecchia logomachia sovietica) la soluzione è facile proprio perché siamo una Democrazia: i “vecchi leoni” vadano in Ucraina e scendano in campo: “E col valor mostrâr quali erano i padri lor”. Altrimenti: “un bel tacer non fu mai scritto”.  

Purtroppo nei talk show tutto si può fare tranne che tacere; ogni ego sembra rimanere vittima, anche quello dei filosofi e non solo dei giornalisti, delle leggi del “self branding” al punto che gli studiosi dei media parlano di una vera nuova patologia, la Iatrodemia

Al di là delle nostre simpatie, alla luce della nostra Costituzione nella realtà del nostro giornalismo, in particolare dell’Infotainment televisivo tipico dei talk show, sia Brindisi che tutti gli altri colleghi a favore o contro di lui sono nel giusto. Come pure tutti gli ospiti specialisti e non. Infatti ognuno di loro può esercitare la sua professione e far “agire” i personaggi che intervista o invita in studio come meglio crede in virtù delle leggi ferree dello spettacolo televisivo. Tutti lo fanno come possono e soprattutto come gli è consentito dall’editore. Certo pensare che il Ministro degli Affari Esteri della Russia, Sergei Lavrov, abbia concordato le regole d’ingaggio della sua intervista con il solo Brindisi e non con l’editore e “su su per li rami” può ingenerare nei più malevoli qualche sospetto, ma questo, va detto chiaramente, sarebbe avvenuto con qualsiasi altro giornalista, testata e/o emittente. 

Il clamore nasconde la trasparenza e a pensarci bene nessuno di noi conosce se non vi partecipa le regole di selezione e d’ingaggio dei talk show, siano essi di emittenti pubbliche o private, e qualora le conoscesse non saprebbe mai se sono le stesse applicate anche agli altri ospiti, magari russi. Anzi non sappiamo e non sapremo mai né come vengano scelti, italiani o stranieri che siano, né se e quanto vengano pagati.

Certo il talk show è un genere assai pericoloso specie quando è “politico” perché di fatto, mescolando la spettacolarizzazione al giornalismo e alle specializzazioni, distrugge qualsiasi autorità della fonte tanto più che qui, grazie ad un uso forzato del concetto di democrazia e di libertà di espressione, vige veramente il concetto di “uno vale uno”, anzi qui chi è più “caratteriale” o “estremo” vale di più. A seguire i battibecchi starnazzanti basati su catene infinite di opinioni sulle opinioni proprie e degli altri c’è soltanto da rimpiangere le vecchie “Tribune politiche”.

Per sottrarsi a questa Infodemia voyeurista c’è un unico modo, che però purtroppo lascia il campo più libero agli esaltati spesso deliranti, quello scelto dai tre ricercatori specializzati in geopolitica, Andrea Gilli, Nona Mikelidze e Nathalie Tocci, di rifiutarsi di partecipare a DiMartedì che addirittura quella sera, oltre all’ormai immancabile giornalista star del Ministero della Difesa russo, Nadana Fridrikso, ha schierato 36 ospiti, esclusi Luca e Paolo, il duo satirico che introduce le puntate. Quanto possano realmente “approfondire” tanti ospiti e i telespettatori in 225 minuti è difficile a dirsi, ma tant’è stiamo parlando di una trasmissione di indubbio successo. Ovviamente il rifiuto non è diretto alla specifica conduzione di Giovanni Floris, giornalista di provata qualità, ma a tutte le trasmissioni: “Ci si può confrontare sulle opinioni, sulle interpretazioni e sulle soluzioni: non con chi diffonde dati falsi preparati direttamente dall’ufficio propaganda del Cremlino. È anche una questione di rispetto verso giornalisti, ricercatori e docenti russi che rischiano il carcere per semplice dissenso”. 

E già, la cosa sfugge a molti: siamo in guerra! Quindi? Verso il nemico la prudenza sarebbe d’obbligo!

Del resto se siamo passati proprio in questi giorni al 58° posto dal 41° nella 20ª edizione della Classifica mondiale sulla libertà di stampa del Reporter senza frontiere (RSF) un motivo ci sarà. Anzi lo studio ne individua diversi, sintetizzando nell’incipit che siamo, non solo noi italiani ma il mondo, nel “Caos dell’informazione”, ossia “uno spazio digitale globalizzato e deregolamentato, che favorisce la falsa informazione e la propaganda”. Un nuovo universo informazionale “caratterizzato da due polarizzazioni”, una interna e l’altra esterna agli Stati. “Nelle società democratiche, lo sviluppo dei media d’opinione sul modello di Fox News e la banalizzazione dei circuiti di disinformazione, amplificati dal funzionamento dei social network, provocano un aumento delle divisioni. A livello internazionale, l’asimmetria tra società aperte da un lato e regimi dispotici che controllano i loro media e piattaforme mentre conducono guerre di propaganda dall’altro indebolisce le democrazie. Ad entrambi i livelli, questa doppia polarizzazione è un fattore di intensificazione delle tensioni”.

In questo quadro i giornalisti italiani e gli editori vengono fotografati così: “I giornalisti italiani lavorano, nel complesso, in un clima di libertà. Tuttavia, i professionisti dell’informazione a volte cedono all’autocensura, sia per la linea editoriale seguita dai loro media, sia per paura di possibili azioni legali come denunce per diffamazione, o per paura di rappresaglie da parte di attori estremisti e reti mafiose”….“L’universo dei media è sempre più dipendente dagli introiti pubblicitari e da eventuali sussidi pubblici dovuti alla crisi economica. La professione sta inoltre affrontando il progressivo calo delle vendite di giornali e riviste. Il risultato è un pericoloso processo di precarietà che limita l’esercizio, il vigore, ma anche l’autonomia del lavoro dei giornalisti”.

Ovviamente, il report evidenzia anche come in Italia la libertà di stampa “continua ad essere minacciata dalle organizzazioni mafiose, in particolare nel sud del Paese, nonché da vari gruppi estremisti violenti o di protesta. Questi hanno visto un aumento significativo durante la pandemia”. In tutto sono una ventina i giornalisti sotto protezione.

Interessante è la notazione che l’attuale “polarizzazione” a favore di questo o quello ha visto affermarsi una nuova figura del giornalismo, quella dell’”opinionista”, in verità più un “genere” del giornalismo specialmente televisivo. Una qualifica che prima spettava soltanto a quei giornalisti, meglio se polemici, chiamati a discettare su tutto, società, costume, politica, sport, sesso etc., ma che oggi comprende anche tutti coloro che per proprie caratteristiche comportamentali, più che per reale peso scientifico, conoscitivo o politico, vengono ospitati, come utili relais, nei programmi televisivi per accendere il dibattito. Gli “opinionisti” si affrontano schierati anche scenograficamente uno di fronte all’altro dal conduttore, anche lui di fatto un opinionista, restando fedeli tutti e per tutto il tempo ai loro cliché, le proprie opinioni, in contrapposizione a quelle degli altri opinionisti ospiti. Una contrapposizione tra esperti e opinionisti che diventa pura spettacolarizzazione delle contrapposizioni. Dove anche la guerra reale e la resistenza di un popolo all’invasore diventano, mescolate all’insofferente guerra delle parole in studio, metafora delle metafore per il telespettatore e utile strumento di guerra per i russi che ci guardano. 

Un’insofferenza e una guerra delle parole che ora fermenterà maggiormente e non solo tra i conduttori dei talk show perché il presidente del Copasir, On. Adolfo Urso, su sollecitazione della Vigilanza RAI, ha annunciato che dall’11 al 18 maggio sono state programmate le audizioni del direttore dell’AISi, Mario Parente, dell’amministratore delegato RAI, Carlo Fuortes, e del presidente Agcom, Giacomo Lasorella. Addirittura il Copasir procederà a svolgere autonomamente delle audizioni per “un approfondimento sulla ingerenza straniera e sulla attività di disinformazione, anche al fine di preservare la libertà e l’autonomia editoriale e informativa da qualsiasi forma di condizionamento, con particolare riferimento al conflitto tra Russia e Ucraina”. 

Gli opinionisti si sfregano le mani, c’è molto lavoro all’orizzonte e probabilmente capire cosa debba fare a rigor di legge un giornalista di un Paese in guerra quando potrebbe intervistare una spia o un ministro dello Stato avversario non importa a nessuno. Nella deregulation c’è più mercato.

Eppure un modello ci sarebbe, mutuando quello già praticato nel rapporto consolidato tra il DIS e gli imprenditori che si recano all’estero; ma pensando al tempo che occorrerebbe soltanto per delineare questo percorso (su cui tra l’altro pesa anche il divieto di contatti tra queste due categorie) forse saremo pronti a guerra finita.

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