
Pochi giorni fa il Ministro Cingolani ha firmato un decreto che finanzia con 450 milioni di euro la filiera dell’idrogeno “verde”, per perseguire uno degli obiettivi del PNRR destinato a far crescere l’industria nazionale dell’idrogeno pulito.
L’obiettivo è quello di affrancarsi dalla tecnologia straniera per la produzione autonoma di elettrolizzatori, necessari per ottenere, a regime entro il 2026, fino ad 1 GW di potenza elettrica annua da celle a combustibile.
Carta d’identità dell’idrogeno
L’idrogeno, gas incolore e inodore, è uno degli elementi più diffusi nell’universo, entrando nella composizione chimica di moltissimi elementi. Quasi il 75 per cento della materia è costituita da idrogeno: sono fatti di idrogeno le stelle e il Sole (gli atomi di idrogeno fondono insieme per produrre elio ed energia che viene irradiata sulla Terra), come pure in gran parte pianeti come Giove e Saturno.
Tuttavia, il suo sfruttamento per la produzione energetica richiede che sia “puro”, ovvero non legato ad altri elementi in composto. È abbondante in natura ma non è presente in forma “pura”: appena liberati, i suoi atomi trovano subito un altro elemento differente a cui associarsi, dando vita alla molecola. Per esempio, due atomi di idrogeno, legandosi a uno di ossigeno, formano l’acqua (H₂O); quattro atomi di idrogeno, aggregandosi a uno di carbonio, producono il metano (CH₄) e così via, per infinite combinazioni, fino alla formazione di molecole sempre più complesse.
Risulta, come abbiamo appena visto, molto abbondante legato ad altri elementi: innanzitutto nell’acqua (legato all’ossigeno), poi nei composti organici (legato a carbonio e ossigeno) ed ancora negli idrocarburi, in particolare nel metano (legato al carbonio).
Purtroppo, il processo chimico o elettrolitico per ricavarlo “estraendolo” da altri composti non è semplicissimo né economico, allo stato attuale della tecnologia e della disponibilità di processi.
Ancor più complesso, se vogliamo ottenere idrogeno “verde”.
I “colori” dell’idrogeno
Come ci ricordano vecchi ricordi di scuola, “in natura nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”: da qui (per colpa del fisico francese Antoine-Laurent Lavoisier che per primo, alla fine del XVIII secolo, formulò la Legge di conservazione della massa) l’evidente conseguenza che il tentativo di “strappare” l’idrogeno da altri composti, ci lascerà in eredità una sorta di “materiale di scarto” che in qualche modo va utilizzato o reimmesso nell’ambiente.
In più, per ottenere un qualsiasi movimento di atomi o elettroni da un composto ad un altro, è necessario applicare energia.
C’è solo un modo quindi per ottenere l’idrogeno “puro” H₂: staccarlo dalle molecole in cui si è combinato tramite una grande quantità di energia, e la fonte di produzione di tale energia incide sulla sostenibilità ambientale del processo.
Per praticità tassonomica, l’idrogeno ad uso energetico è stato quindi classificato con cinque “colori”, che caratterizzano la fonte necessaria alla produzione e l’eventuale destino dei “sottoprodotti” di tale processo.
– Nero: è il meno sostenibile perché ricavato dalla scissione della molecola dell’acqua tramite la corrente elettrica prodotta da una centrale elettrica a carbone o a petroli;
– Grigio: prodotto tramite l’estrazione di combustibili fossili, come il metano, o dallo scarto produttivo di una reazione chimica. Purtroppo ad oggi, ancora più del 95% dell’idrogeno utilizzato è “grigio”, e questo elemento viene principalmente destinato ad usi industriali;
– Blu: definito “blu” perché, sebbene sia estratto da idrocarburi fossili come l’idrogeno “grigio”, l’anidride carbonica prodotta nel processo non viene liberata nell’aria bensì viene catturata e immagazzinata. In questo modo, si può ottenere l’atomo di idrogeno senza generare anche emissioni dannose per il clima.
– Viola: è estratto dall’acqua usando la corrente prodotta da una centrale nucleare, cioè a zero emissioni di CO2. Però, se da un lato il nucleare garantisce l’assenza di emissioni nell’aria, dall’altro lato pone gli ampiamente dibattuti e controversi problemi riguardo alla gestione delle scorie di materiale fissile.
– Verde: viene estratto dall’acqua tramite il processo dell’elettrolisi ovvero grazie alla corrente prodotta da una centrale alimentata da energie rinnovabili, ossia idroelettrica, solare o fotovoltaica. L’elettricità in eccesso che non viene utilizzata alimenta celle elettrolitiche che producono idrogeno e ossigeno a partire dall’acqua.
Il piano nazionale
L’ultimo processo produttivo è totalmente green, caratteristica fondamentale per allineare ogni risorsa ai piani di decarbonizzazione che le varie istituzioni stanno mettendo in campo. L’Unione Europea, infatti già nel luglio 2020, ha pubblicato la tanto attesa strategia per l’idrogeno, A hydrogen strategy for a climate neutral Europe, come parte del Green Deal europeo (seguite l’hashtag #EUgreendeal), annunciando l’obiettivo di diventare carbon neutral traguardando il 2050.
Un obiettivo tanto nobile quanto ambizioso che prevede un investimento tra i 180 e i 470 miliardi di euro, e costituito da una serie complessa e variegata di inziative (più o meno coordinate tra gli Stati dell’UE) che vanno dagli obiettivi di eliminazione completa della produzione di vetture a motorizzazione endotermica (qui qualche prima osservazione sulle conseguenze) fino all’iniziativa Cingolani che abbiamo preso a pretesto per questo articolo.
Il decreto fa seguito ad un’altra iniziativa del MiTE che, a dicembre 2021, aveva pubblicato un Avviso Pubblico di manifestazione d’interesse rivolto agli Enti territoriali (Regioni e Province Autonome) che avessero la disponibilità al riuso di aree industrializzate dismesse e non utilizzate, al fine dalla redazione di progetti di riconversione dei siti per l’installazione di centri di produzione e distribuzione di idrogeno proveniente unicamente da rinnovabili (quindi, idrogeno “verde”), finanziati con 500 milioni di Euro.
Il nuovo decreto mira, nella sostanza, ad affrancarci dall’oligopolio dei produttori di elettrolizzatori industriali (ovviamente quelli cinesi stanno a loro volta minacciando le produzioni europee e statunitensi, con costi molto inferiori) con la costituzione di poli d’eccellenza per l’ingegnerizzazione dei componenti e degli impianti di produzione “autarchici”.
L’elettrolizzatore in sé non è nulla di nuovo, poiché l’estrazione per elettrolisi della molecola di idrogeno traendola dall’acqua è un processo ben consolidato. Il vantaggio è che la “materia prima” è largamente disponibile ed economica, e che il “prodotto di scarto” è l’ossigeno puro che può tranquillamente essere reimmesso nell’atmosfera senza remore ecologiste.
Il processo elettrolitico “perfetto” fa derivare da 9 kg di acqua circa 1 kg di idrogeno e 3,5 kg di ossigeno, con un’efficienza teorica del 75% circa, essendo necessari 44kWh per la produzione di questo benedetto chilogrammo di H₂.
Ovviamente non si tratta solo di un vascone con gli elettrodi immersi in acqua e alimentati da una batteria, ma di un impianto ben più complesso e per la cui operatività sono allo stato disponibili quattro principali alternative tecnologiche:
1. Cella elettrolitica alcalina (AEC): è oggi la più diffusa, opera a bassa temperatura, ha un basso costo di capitale ma è meno flessibile della PEM (vedi punto seguente); ha una catena di fornitura e capacità produttiva consolidate.
2. Membrana a scambio protonico (PEM): opera anche lei a bassa temperatura con i protoni che passano attraverso una speciale membrana; offre una risposta dinamica più rapida e intervalli di potenza di funzionamento più ampi rispetto all’AEC ma ha una durata dello stack inferiore; attualmente presenta costi di capitale più elevati rispetto all’AEC.
3. Anion Exchange Membrane (AEM): opera a bassa temperatura e offre un potenziale di sviluppo interessante. Il basso costo dei materiali utilizzati e il semplice bilanciamento del sistema consentono di costruire in modo efficiente un elettrolizzatore da 2,4 kW; l’obiettivo principale è impiegarlo in una produzione di idrogeno decentralizzata/distribuita con componenti standardizzati che possono essere addizionati a piacere.
4. Solid Oxide Electrolier Cell (SOEC): opera ad alta temperatura (700–800 °C) e offre un potenziale di sviluppo molto elevato, ma è tuttora in fase di sperimentazione con alcuni prototipi, sebbene si prevedano in futuro altissime efficienze.
Quindi, il rovescio della medaglia è il costo di produzione derivato dall’impegno economico per la costruzione dell’impianto (CAPEX) e soprattutto, dal costo dell’energia necessaria per il processo di scissione (OPEX), come ben delineato in questo interessante articolo su RivistaEnergia.it online.
I costi di produzione: davvero “conviene”?
Partiamo dall’idrogeno “grigio”. Il suo costo di produzione dipende dal prezzo del metano. Al prezzo del metano europeo pre-pandemia, il costo di produzione era circa 1 euro al chilogrammo. Con un prezzo del metano quasi raddoppiato (a 25 euro al megawattora), il costo sale a 1,5 euro al chilogrammo.
Dal grigio al “blu” occorre aggiungere i costi per la cattura ed il sequestro dell’anidride carbonica, che fanno aumentare il costo di impianto. Ai costi di impianto attuali, il costo di produzione dell’idrogeno blu è pari a quello dell’idrogeno grigio maggiorato di 0,5 euro al chilogrammo. Nel lungo periodo, la maggiorazione potrebbe scendere a 0,25 euro al chilogrammo.
Più articolato il calcolo del costo di produzione dell’idrogeno “verde”, che, come abbiamo già visto, dipende soprattutto dal costo degli elettrolizzatori e dal costo dell’energia elettrica rinnovabile che li alimenta.
In Italia, ad esempio, supponendo che l’impianto sia alimentato ad energia solare in un’area ad elevato irraggiamento, l’idrogeno verde costerebbe oggi da 6 a 8,7 euro al chilogrammo, a seconda della taglia dell’elettrolizzatore. Al 2030 potrebbe costare da 3,7 a 5,9 euro al chilogrammo e nel lungo periodo tra 2,1 e 4,4 euro al chilogrammo.
Per confronto, se l’elettrolizzatore fosse alimentato da un parco eolico offshore come accade oggi nel mar del Nord, l’idrogeno costerebbe da 4 a 5,2 euro al chilogrammo. Al 2030 da 3 a 3,9 euro al chilogrammo e nel lungo periodo tra 2 e 2,8 euro al chilogrammo.
Ovviamente ci asteniamo da considerazioni sull’idrogeno “viola” (quello prodotto con generazione da energia nucleare): sull’argomento ognuno ha le proprie convinzioni e, davanti alla decisione referendaria di 35 annni fa (poi in qualche modo “riconfermata” nel 2011), è una soluzione che sembra ricoperta da un definitivo sarcofago nazionale.
Lo stoccaggio e la distribuzione
L’idrogeno è l’elemento più leggero in natura. A pressione atmosferica, un chilogrammo di idrogeno occupa un volume di 12 metri cubi, mentre un chilogrammo di metano solo 1,6 metri cubi. Così, il contenuto energetico dell’idrogeno (cioè l’energia prodotta con la combustione) a parità di peso è più del doppio di quello del metano (a parità di volume è però meno di un terzo).
In altre parole: l’idrogeno è meno denso del metano, e ciò comporta una serie di difficoltà aggiuntive sia nel trasporto che nello stoccaggio. Sia per il trasporto che per lo stoccaggio sono in corso da tempo attività di ricerca e sviluppo di nuove tecnologie che potrebbero renderli più agevoli e meno costosi di quanto non siano oggi (tipologia delle condotte, necessità di basse temperature dei silos, ecc).
Tuttavia, sono stati effettuati interessanti esperimenti, utilizzando per il trasporto dell’idrogeno le stesse pipelines usate per il metano, con risultati soddisfacenti (anche SNAM, sulla scorta delle specifiche ANSI internazionali in materia – la ASME B31.12-2019 – sta lavorando su questi aspetti). Potrebbe quindi essere la strada giusta per veicolare dalla produzione verso i punti di stoccaggio e utilizzo le preziose molecole.
Al momento infatti gli utilizzatori a vario titolo di idrogeno sono sullo stesso sito di produzione: gli impianti di elettroseparazione sono affiancati agli stabilimenti siderurgici, alle raffinerie, agli impianti chimici di produzione di ammoniaca, metanolo e concimi, quindi a “chilometri zero”.
Si, ma a cosa ci servirà tutto questo idrogeno?
Sempre ricordando Lavoisier, lo scopo finale è trasformare l’idrogeno in energia.
L’idrogeno, in effetti, non deve essere considerato una “fonte”, bensì solo un “vettore”: bruciando, produce calore liberando nell’atmosfera vapore acqueo, oppure può ricombinarsi con l’ossigeno “restituendo” chimicamente elettroni e, quindi, direttamente energia elettrica.
L’idea generale, per ottimizzare le risorse, è quella di costituire grandi centri di produzione utilizzando l’energia in eccesso del sistema di produzione eolico e fotovoltaico, per accumularla e poterla redistribuire nei momenti od orari “di magra” per l’impiego nelle celle a combustibile per la generazione o per la ricombinazione con l’anidride carbonica per la composizione di “metano sintetico” da impiegare nelle tradizionali forme di combustione, che a sua volta restituirebbe l’anidride carbonica che, immagazzinata, verrebbe reimpiegata per la successiva fase di ricombinazione con l’idrogeno, ad libitum, garantendo la carbon neutrality tanto agognata. Naturalmente siamo ancora molto lontani dalla maturità di questi processi per il loro approntamento “in produzione”.
Il principio della “restituzione degli elettroni” viene sfruttato sulle piattaforme (alcune anche in fase avanzata) di mobilità: a bordo dei mezzi ci sono serbatoi di idrogeno (vere e proprie “bombole”) per l’alimentazione di batterie accoppiate a fuel cells che ricombinano l’ossigeno, emettono acqua distillata e generano corrente elettrica per la trazione.
Vari marchi automobilistici (per il settore consumer, per esempio Toyota con la sua Mirai), alcune aziende aeronautiche e di cantieristica hanno già in commercio sistemi di propulsione ad idrogeno per aerei e navi.
Sebbene non vi siano grandi problemi legati alla sicurezza dei serbatoi a bordo dei veicoli (siamo su livelli di rischio inferiori al GPL ed al metano, anche a motivo del più elevato punto di accensione) e alla neutralità ambientale in caso di perdite (non è corrosivo né inquinante né tossico), è ad alta volatilità e a rapidissima combustione (evitando così fenomeni di propagazione).
Tuttavia, va posta cura nella manipolazione, soprattutto per la reazione violenta in caso di contatto con l’ossigeno (che è poi alla base del suo “funzionamento energetico”), e pone i consueti problemi riguardanti la rete di distribuzione al consumo.
Al momento, infatti, è in funzione un solo “distributore di idrogeno” in Italia, con solo altri sei punti di prelievo in progetto a breve scadenza. Chiaramente è prematuro munirsi di un’auto ad idrogeno, quantomeno in Italia.
Un altro problema è il peso delle fuel cells, soprattutto per le applicazioni in campo aeronautico: la gestione di una piattaforma deve fare i conti con il carico pagante (che non è infinito) per determinare il trade-off costi benefici per un vettore aereo propulso esclusivamente ad idrogeno. Chiaramente ci si sta orientando su sistemi di co-generazione mediante accoppiamento di motori da utilizzare in maniera differenziata nelle varie fasi del volo.
Concludendo?
La prospettiva è sicuramente interessante, la direzione sembra ineluttabile anche a causa della progressiva diminuzione delle risorse “tradizionali”.
La transizione green soffre certamente di instabilità determinate da “come gira il vento” per la produzione eolica, e da “come splende il sole” per il fotovoltaico, nonché dall’innegabile impatto ambientale e paesaggistico dei campi eolici e fotovoltaici. La ricerca poco può fare per questi aspetti, se non efficientare al massimo gli attuali impianti e tecnologie.
Speriamo di lasciare in eredità ai nostri figli e nipoti un’aria più pulita, almeno in città, con tutto l’idrogeno “che move il sole e l’altre stelle”.