
Abbiamo visto gli eventi storici che dal dopoguerra ci hanno condotto dove siamo. Ora occorre portare a fattor comune le cause che ci hanno avviato a un declino i cui aspetti non sono solo economico-finanziari. Molte cause sono del tutto trasversali. Eventi storici sembrano ripetersi, quali, esempio attuale, la crisi energetica. L’energia, sembrava dovessimo averlo capito dallo choc petrolifero degli anni 1970, è un fattore di libertà; le ripercussioni dell’inflazione e dello stravolgimento socio-politico che derivarono per noi da quell’epoca dominarono per anni e anni; anche il modo di uscirne, prettamente finanziario, influenzò il dopo-crisi. Non abbiamo imparato molto da quella lezione e una politica energetica complessiva, che avesse la libertà e la democrazia come obiettivi, non c’è mai stata e siamo dove siamo: cerchiamo metri cubi di gas e assieme a loro portiamo a casa vincoli, compromessi e contraddizioni (nuove e strane dittature con cui trattare, dilazione della decarbonizzazione, il problema del nucleare nuovamente messo sotto il tappeto).
La questione dell’energia mette subito in luce un aspetto generale: la smemoratezza italiana. Leggiamo la storia frettolosamente e poi passiamo al gossip che è più divertente, meravigliandoci che gli altri questa storia ce la rinfaccino o di essa si avvalgano per raggirarci. L’Italia mostra così un atteggiamento superficiale e fatalista verso gli stimoli esterni, reattivo e individualista verso quelli interni: gli eventi, le catastrofi, le corruzioni, le incompetenze sono “fattori meteorologici” a cui si risponde con grandi leggi poco pensate o solo declamate come grida manzoniane, e poi ognuno per conto suo reagisce ai problemi.
Declino economico. Abbiamo fuori di ogni dubbio patito l’euro e l’Europa. Ci siamo entrati con un debito pubblico già oltre il 100%, costruito in un’epoca in cui non costituiva un problema se affiancato da numeri di crescita e forte presenza sui mercati internazionali. Questo ci ha esposto subito a un condizionamento che a volte è diventato un ricatto: i mercati ci avrebbero dovuto insegnare a votare, espressione infelice, dimentichiamola assieme a chi la disse. Ma purtroppo vera. La nostra economia opportunistica necessitava di una valuta aggressiva che mantenendosi a livelli di cambio vantaggiosi sostenesse l’export, compensando l’effetto dell’aumentato costo del lavoro. Non siamo riusciti a transitare in modo indolore alla valuta forte. Non ci siamo resi conto di quanto questa cambiava lo scenario. Ci siamo accontentati della motivazione che “non potevamo starne fuori”, sarebbero stati guai, e sono stati guai lo stesso. Il citato costo del lavoro sconta un altro dei perenni problemi italiani, quelli che non si risolvono mai perché mai si va alla radice, il cosiddetto cuneo fiscale. La fiscalizzazione degli oneri sociali portò inevitabilmente il costo del lavoro sotto le grinfie della politica: dentro si annida il problema di come chi percepisce “reddito che genera PIL” debba farsi carico di chi non ne genera o ne genera in modo oscillante fra il puro automantenimento e l’assistenzialismo.
Alchimie che tolgono da una tasca per mettere nell’altra generano sperequazioni (la giungla retributiva della pubblica amministrazione) e soprattutto la burocrazia difensiva, coltri di fumogeno per rendere indispensabile l’inutile e accumulare sprechi e carenze di infrastrutture: le Regioni sono la vera voragine d’Italia e del suo abborracciato federalismo. Da qui il neo-luddismo contro la modernità e l’automazione, il proliferare di entità inutili e duplicate, il corporativismo per cui in Italia esistono più associazioni e relativi presidenti che pizzerie e relativi pizzaioli.
Esiste poi, sul lato produttivo, una struttura micro-medio aziendale sottocapitalizzata e autofinanziata, esposta alle intemperie del sistema bancario, spinta inevitabilmente ai ghirigori dell’elusione e ingegneria fiscale, della delocalizzazione non solo produttiva ma anche a tax planning (p.es. a Cipro). Rispondiamo con il meccanismo della coperta corta: quest’anno ti copro le estremità con la Sabatini, l’industria 4.0, il credito d’imposta deducibile (e infatti i numeri migliorarono nel 2017). Poi l’anno prossimo coprirò qualcun altro, impiegherai il tuo tempo a ritrovarti in difficoltà e tornerò con altri palliativi (altro che palliativi, è arrivato il virus). Avevamo degli imprenditori capaci e temerari, abbiamo dei finanzieri in sedicesimo che reclamano mancette. Quanto sia quest’ultima comunità, numericamente, lo abbiamo visto nella pandemia: sono scappati quasi tutti. Piccolo era bello …
L’Italia era uno splendido esempio di economia mista, studiato, magari bestemmiando per l’invidia, nelle università blasonate anglofone. Lo smantellamento dell’industria di Stato sotto IRI (divenuto un centro di potere e un collo di bottiglia per la troppa intromissione della politica) non ha fatto transitare un mondo elefantiaco nella snella imprenditorialità, piuttosto ha reso tutti statali: perché nella Telecom privatizzata, proprio nel settore più promettente a fine anni 90, hanno cominciato a entrare i finanzieri reduci da settori ormai decotti e poi per quella via sono entrati gli stranieri? Abbiamo dovuto accorgerci che alcuni stranieri mettevano cavi e frequenze su asset strategici e militari italiani, anche a questo non si era pensato, come è stato per Kaspersky. I grandi pezzi nobili dell’industria italiana sono rimasti nella sostanza statali e monopolisti, hanno però applicato tariffe di mercato con cui ripagare il loro ruolo di dispensatori di lavoro (ne parliamo fra un attimo) più l’obbligatorio profitto, compensando le cose con un ampio ricorso a lavoro reale ma precarizzato: a cavallo fra i due millenni, in una fase tutto sommato espansiva pre-euro, si è proceduto a una precarizzazione inaudita del lavoro, passata del tutto sotto silenzio. Molti percepiscono un reddito rigido, pochi lavorano con contratti brevi e per quattro soldi e una nuova casta manageriale prende i bonus, con cui ha reso uno standard la settimana bianca anche per chi al massimo si faceva una domenica a Roccaraso.
Mercato del lavoro. Rigidità e sindacalismo sono venuti avanti di pari passo nei decenni. La difesa di chi aveva un reddito, da lavoro o da pensione, ha prevalso sulla creazione di nuovo lavoro. E’ apparso chiaro che in Italia creare nuovo lavoro avrebbe dovuto significare creare “nuovi lavori” per i quali il sistema scolastico-universitario non era preparato. E’ nata l’anomalia tutta italiana per cui il lavoro flessibile è meno retribuito di quello fisso, quello ad alta scolarità meno ricercato di quello a bassa. La scelta politica che ha accomunato diversi governi di diverse estrazioni è stata quella di affidare le riprese economiche a espansione del pubblico impiego (p.es. scuola, ma con interventi a pioggia senza innovazioni competenziali) e colate di cemento pubblico a scarsa o nulla tecnologia. Questa follia ha un effetto depressivo sui consumi: nei paesi più sviluppati, l’economia viene tirata dall’innovazione e dal consumo di prodotti-servizi ad alto valore aggiunto, non da inutili quando non grottesche rotonde stradali. L’Italia così non solo ha perso, a partire dagli anni 1990, l’autobus della modernità ma si è trovata, per pura consequenzialità logica, a contrastarla e imbrigliarla: finanziamento dell’imprenditorialità giovanile ridotto a stipendiucci di 1600 euro lordi mensili e solo ad avanzamento del progetto con mille scartoffie. Immaginiamoci Gates o Jobs nel loro garage che trappolassero sognando 1600 dollari al mese.
Sono quindi stati bloccati “per manutenzione” gli ascensori sociali: l’Italia di un tempo aveva manager, politici, economisti venuti su dalla provincia, dalla vita reale. Abbiamo preferito i rampolli, i nipoti eccellenti, gli scambi di figliolanze fra cattedratici del sistema universitario ereditario. La meritocrazia è andata a fare sfoggio di sé all’estero: al Max Planck, alla London School, l’abbiamo chiamata fuga dei cervelli (ahi ahi, monellacci, avete preferito il vil denaro alla Patria) ma in Inghilterra abbiamo mandato in prevalenza lavapiatti (siamo un paese votato alla ristorazione, no?).
Due elementi si ritrovano al fondo di questa che è davvero una delle più pesanti aree di declino. Uno è il permanere e il rafforzarsi del concetto di lavoro come elargizione: ti faccio lavorare, pretendi anche di essere pagato? Gli stage che fanno curriculum. Tuo padre ti mantiene ancora tre anni, fa’ conto che stai facendo una specializzazione, poi vedrai. Oppure l’eterno concorso pubblico: si vorrebbe, per fare un po’ di chiacchiera, che le ragazze si orientassero alle facoltà STEM ma non è meno faticoso cercarsi magari per 3-5 anni una cattedra alle medie, poi passare di ruolo, poi con una legge “buona scuola” avvicinarsi a casa, entrare un giorno in ruolo e dopo anni di “matrimonio precario” la sera stessa romanticamente mettere in cantiere un figlio, segnandosi la data come Filumena Marturano? E durante questa maternità, un’altra no-STEM percorrerà lo stesso iter.
L’altro elemento è, appunto, lo sconcertante disastro scolastico: a partire dagli anni 1970, il sindacalismo ha iniziato a cercarsi gloria e fortuna a scuola. La contestazione ha tracciato il solco, l’ipersindacalismo lo ha difeso: dopo un po’ la contestazione è finita, a parte qualche pantera, qualche cane sciolto ma educato e ben pettinato, è rimasta invece la difesa di privilegi che, lo ripetiamo alla noia, oltre a gratificare qualcuno, negano o rallentano l’accesso a molti altri, con un effetto domino mostruoso. Di pari passo con l’implosione del sistema famiglia, la scuola italiana (nata eccellente, ancor oggi con volenterose e sane eccezioni) ha incapsulato il peggio del fancazzismo e della deresponsabilizzazione adolescenziale, prodotto e allevato imbecilli da discoteca per livello e da esposizione universale per intensità, creato un zoo per la gioia dei social networkers. Tanto poi un lavoretto lo troverà papi. E negli anni 1950 avevamo il 4% solo di laureati. Lo abbiamo quintuplicato per ritrovarci più analfabeti di prima. Non capiamo un testo semplice. Dopo 140 caratteri, nessuno ti segue più. Ci possono raccontare quello che vogliono.
L’università, ingessata dagli stessi automatismi, incapace di portare avanti progetti di ricerca con i ritmi e le finalizzazioni del mondo economico e industriale, non riesce a raccordarsi con quest’ultimo. Sembrano due mondi non solo lontani ma a rotazione inversa, due metaversi paralleli. Non si è mai capito quale dei due versanti, università o industria, sia colpevole e si neghi all’altro. La possibilità, venuta avanti con le mille riforme di un sistema che era durato secoli, di creare gli spin-off, i laboratori e incubatori, i tecnopoli misti non ha scalfito l’inefficienza: ha iniettato finanziamenti statali e project financing non sistemici ma vincolati a realtà ad hoc, facendo prevalentemente gli interessi locali e settoriali di qualche professore che ha avuto l’accortezza di studiarsi bene i meccanismi. Anche questo, superfluo dirlo, non solo ha creato ingiustizie ma anche chiuso opportunità a chi intraprendeva in proprio la libera impresa: trovarsi come concorrente il blasone di un’università, per chi lo ha provato, è sgradevole. Non sanno nulla di pratico e per colmo li paghi tu con le tue tasse.
Gli atteggiamenti mentali. Gli italiani sono autoreferenziali. Siamo i più bravi (Leonardo, reclamato come proprio dai francesi, Michelangelo, dal papato, Verdi, Manzoni … tutta gente nata quando l’Italia era quello che diceva Metternich, una mera espressione geografica). Ma ci riteniamo anche i più simpatici e ci permettiamo di schifare e danneggiare le bellezze paesistiche e i beni culturali, e chiamiamo dall’estero i sovrintendenti, che strabuzzano gli occhi e pensano sia uno scherzo del primo aprile, e lasciamo le coste all’edilizia creativa e agli stabilimenti balneari esentasse. Il fatto è che ci beviamo tutte le mode altrui, importiamo perfino i telefilm da Austria, Turchia e Portogallo. Parliamo di italian style ma le nostre ragazze si vestono in jeans e sneakers come in tutto il mondo. Guardate la pubblicità e vedete dove è finita la nostra cucina: emissioni zero, sostenibilità, granaglie e quinoa. Mangiamo sempre più in solitudine o con il gatto, per via della demografia che vediamo fra un po’: le belle zuppiere di tagliatelle in allegra compagnia ? Solo per reclamizzare l’antiacido gastrico.
Grandi ideali: il mutamento climatico, la società multietnica, not in my garden e senza interferire con i nostri cabotaggi individuali. Poi però nulla è gratuito, il bene comune arriva a redditività differita, non a slogan subitanei, come i venerdì verdi dei nostri studenti. Bisogna sapere leggere criticamente i trend: quante volte sentiamo parlare di conciliazione tra lavoro e vita personale ? Eppure, molto di questo life-style integrato dipende dalla spinta, dal “nudging” dei social network che alla fine della catena hanno i grandi plutocrati. Guardi i report aziendali mentre aspetti la pizza in pizzeria. Oppure ti fai i biglietti delle vacanze mentre fai una videochiamata di avanzamento progetti. E intanto lavoriamo poco (altro semplice ma reale e sottovalutato problema) e mandiamo in discarica la famiglia. Quest’ultima è da un lato minata dal tarlo demografico e dal single-consumerism, dal dink (double income no kids), dall’altro è annacquata da quella che De Rita, con ampio anticipo, individuò come “età del sorvolo”: Facebook e le nostre storielle Instagram sorvolano la realtà e i nostri doveri, l’ipertrofia del presente oscura il futuro. Ci mascheriamo in vite virtuali, disertiamo quella reale, l’unica che abbiamo e senza possibilità di cambio merce.
Il trasformismo politico. Diamo da molto tempo un peso quasi feticistico al mito dell’uomo forte. Di fronte all’uomo forte, anche se si chiama solo Conte o Speranza, stanno le sfide ciclopiche dell’eterna emergenza. Ci aspettiamo che le risolva: banchi a rotelle, distanziamenti, nuovo gas a buon mercato, il patto di stabilità, la concorrenza cinese (che noi scambiamo per una nuova luminosa via della seta). Vogliamo il governo, dopo che alle elezioni abbiamo votato a piffero e non esiste una maggioranza. Arrivano così gli improbabili giallo-verdi, gli ancora più improbabili giallo-rossi e a alla fine per rimandare i dipendenti pubblici in ufficio si deve varare un whatever it takes e almeno la finiamo con i finti smart working. Siccome ne abbiamo parlato, apriamo e chiudiamo una parentesi. E’ stato chiamato smart working lo stare a casa e fare alcune videoriunioni. Lo smart working è un’altra cosa. Mettiamo che abbiate un problema al PC. In ufficio dopo poco si presenta l’help-desk, smanetta e risolve. Quando siete a casa come riproducete tutto questo? Avete in linea il self-help? I manuali? I tool di condivisione delle risorse? E in generale: quella che era la capatina volante dal collega per chiarire un’operazione? Ci sono le procedure aziendali online? I sistemi esperti? Gli accessi e le autorizzazioni per cui ognuno accede in workflow a ciò che gli serve? Questo modo di autogestirsi, questi kit chi li ha scritti, chi li ha testati e disseminati?
La politica è diventato il luogo sacro dei miracolati. Una specie di Fatima dove rendere grazie per una gamba salvata, per un figlio che ha messo la testa a partito. Quando una società non riesce a garantire a tutti un equo e uniforme avanzamento, chi riesce a farcela è un miracolato. Tutti i miracolati hanno due caratteristiche: creano un legame totalizzante con il “miracolatore” e cercano in tutti i modi di mantenere vivo il miracolo. Non hanno alcun rilievo sociale: i miracoli sono merito della fede personale, chi non ce l’ha, ahimè, si arrangi altrimenti. Magari evada le tasse, che ne so. In UK, Cameron ha perso il referendum Brexit. La signora May, mancata nuova Thatcher, non è riuscita a chiudere il negoziato UE. Si sono dimessi, ne avete più sentito parlare ?
La magistratura supplente. Lentezza biblica dei processi, giustizia ritardata uguale giustizia negata, diceva Pertini. Problemi strutturali, la solita carenza di personale laddove servirebbe, mentre abbondano altrove nullafacenti. Mancata o insufficiente informatizzazione dei fascicoli e delle procedure. Già Andreotti, irritato, convocò il capo dell’IRI che aveva sotto Finsiel e SOGEI: non pervenuti, o meglio troppo poco, non siamo qualunquisti, poi non è che dipende da loro. Riforme della Giustizia parziali e poco comprensibili, il problema delle porte girevoli fra politica e sistema giudiziario. La somma degli incarichi e i distacchi temporanei. La mai esperita separazione delle carriere tra requirente e giudicante. Non possono, in questo contesto, non manifestarsi le opacità individuali o lobbistiche, i porti delle nebbie. Né può arrestarsi la macchina ormai avviata della supplenza politica: se il Parlamento non interviene, partono le inchieste che dettano leggi correttive, come per Tangentopoli, ma in politica devi aspettarti il colpo di spugna o il cambio di fronte. Spesso ai fenomeni basta cambiare nome e prendono tutt’altre vie. Corruzione? Basta dire che il vero problema è l’antipolitica. Definirla è difficile ma chi vi incorre si esclude dal gioco. Il problema diventa lui.
Intanto, alla corruzione si associa ormai stabilmente la criminalità organizzata: quanto sottrae all’economia reale, alle entrate dello Stato, alla concorrenza, allo sviluppo dell’impresa e del mercato del lavoro, quanto lede la partecipazione dei cittadini, inibisce gli investimenti stranieri ? Almeno quanto la burocrazia e l’incertezza della giustizia. Viene da riflettere su quanto denaro reale faccia comunque girare: vengono i brividi a pensare che, con la metamorfosi che la criminalità organizzata ha avuto e con il suo allacciamento alla finanza corrente, la sua scomparsa immediata probabilmente produrrebbe uno sconquasso nei conti, forse non solo dell’Italia. Tra i tanti misteri italiani, come si sia abbinato il livello politico a quello malavitoso rimarrà occulto. Onore a chi ha lasciato la vita combattendo questi animali.
Il disastro demografico. Nel 2050 saremo 30 milioni, al netto s’intende degli apporti migratori. Ma come? Gli italiani attaccati alla famiglia, che mangiano assieme, che urlano dal balcone perché non possono andare dagli zii, dove siamo finiti? I nostri genitori si sono sposati nel dopoguerra con tre seggiole spaiate, il letto dei nonni e un fornello e noi non facciamo figli perché non riusciremmo a portarli al paese di Babbo Natale in Finlandia? Nemmeno con le pensioni dei suoceri (cui abbiamo già fatto vendere il podere al paese per pagarci la ristrutturazione dei bagni di casa nostra)?
La bontà è un lusso. Almeno questo è diventato, qui; altrove, dove ci sono i poveri veri, magari chi ha poco divide quel poco. Noi diventiamo magnanimi quando ci sentiamo garantiti: compiangiamo gli ucraini nell’assoluta certezza che staremo sempre meglio di loro. Speriamo. I garantiti: c’è il Covid, tutti a casa, la salute prima di tutto, tanto lo stipendio arriva. La guerra: difendiamo gli assaliti prima di tutto, se aumentano le bollette abbiamo messo da parte tanto durante la pandemia, sul divano a fare smart working. I migranti che scappano da guerre non meglio precisate e lasciano i loro paesi senza braccia da lavoro: vanno accolti tutti (è quello che sta accadendo) e poi una volta sbarcati ognuno se la veda come vuole. Siamo stati migranti anche noi: mio nonno materno andò per fare il macellaio in Uruguay, stette un giorno e tornò in Val Padana. Non serve chiudere i porti, inveire contro l’Europa: lo abbiamo capito, scusate la brutalità, che non li vuole nessuno. Non ci vedono un tornaconto, non capiscono da che guerre fuggano. Servirebbe mettere in campo esperti di diritto del mare, di trattatistica internazionale. Così li costringeresti a ragionare, quelli che ci danno dei vomitevoli.
L’Europa sarà anche senza cuore, intenta solo a misurare banane ma forse proprio per questo va capita e gestita. L’Europa scrive regole e chi ci sta dentro se le deve leggere, o almeno farle leggere da chi, non miracolato, le cose le capisce. I trattati avvantaggiano sempre alcuni e svantaggiano in pari misura altri. Noi invece esultiamo sempre per tutto. Basta che la palla entri in porta ed è goal, porta nostra o porta loro. Abbiamo esultato per la fine del comunismo alla porta di Brandeburgo: e il forziere degli aiuti americani si chiudeva per sempre. D’altra parte, approcciamo la politica da tifosi. L’Italia multietnica dovrebbe per qualcuno nascere dalla cittadinanza per diritto di suolo di nascita: basta quello e tifare per una delle nostre squadre (è stato detto, non lo invento, e come vedete c’è sempre il Bar Sport di mezzo).
Che cos’è l’identità nazionale? Da dove viene? Ricordiamoci chi siamo, diceva la celebre voce della Loren nello spot durante la pandemia. Chi siamo. La terra dove riposano il papà, la mamma che abbiamo adorato. Il volo alto, immenso con cui Dante ci raccontò lo strazio di Ugolino, la forza di Francesco che si spoglia dei panni patrizi e cambia la storia del mondo. Giotto, Francesco, Dante: le tre belve, le colonne che hanno retto l’identità nostra. La nostra identità, la nostra lingua, i colori della nostra infinita campagna, la forza e la pazienza di parlare al Sultano, l’esilio che sa di sale. L’identità nazionale. Se qualcuno ha una definizione migliore, più precisa, prego, si faccia avanti. Questa identità o la studiamo seriamente a scuola e dopo la insegnamo e difendiamo, oppure tante belle famigliole di single con gatti.
E mi fermo. Ora, questa è, se vogliamo, la pars destruens. Facile immaginare chi reclama la pars construens: e adesso che cosa proponi? Giusto ma anche spesso pretestuoso. Una domanda che blocca, rimanda a qualche decreto attuativo, a qualche esperto televisivo che dimostri che i problemi sono come sempre “ben altri”. Non facciamoci ingannare da chi chiede le solite rapide e semplici soluzioni. Ognuno prenda un difetto o un problema tra quelli visti, laddove aleggi la propria responsabilità, e si migliori. Sorga ad atti illustri, scrisse un altro italiano nato sotto il papa, o si vergogni.