CITTADINI & UTENTI

Breve ma fondamentale storia del declino italiano

La cronologia, i fatti, le cause. Nella seconda parte analizzeremo il meccanismo che ha portato l’Italia a declinare

Alla fine della seconda guerra mondiale, l’Italia era una nazione sconfitta alla quale veniva riconosciuta solo la condizione attenuata di co-belligeranza. Dovette perdere territori in favore della Francia e della Jugoslavia, restituire alla Grecia le terre occupate e rinunciare a tutte le colonie, fasciste e prefasciste. Alla conferenza di pace di Parigi (1946) figurò come alleata della Germania per cui le condizioni furono molto pesanti, militarmente ed economicamente, con salati risarcimenti pagati dai prestiti degli USA. Questi ultimi, con Gran Bretagna e Francia, rinunciarono a chiedere le riparazioni di guerra. Tale dettaglio, nella nostra ostinata nazionale smemoratezza, dovremmo ricordarcelo. Per gli accordi tra gli Alleati, l’Italia rientrò nell’area politica occidentale, baluardo, per la sua posizione, contro il nascente blocco comunista nei Balcani. 

Rivendicando questa importanza strategica italiana (la “porta di nord-est”) e la nostra partecipazione ancorchè tardiva alla guerra contro i tedeschi, il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi chiedeva credito per il Paese stremato. Il danno totale fu stimato da Pasquale Saraceno in 3200 miliardi di lire (pari a 3 volte il reddito nazionale del 1938, a 7 volte la massa monetaria circolante nel 1945). Secondo i calcoli di Bankitalia, i danni di guerra del nostro comparto industriale rappresentavano l’8% del valore degli impianti, neanche tanto, ma quelli che stentavano erano riconversione industriale e rifornimenti di materie prime. 

Disastrose le condizioni delle città italiane distrutte dai bombardamenti, delle infrastrutture di trasporto e dell’agricoltura. Il costo della vita era 20 volte quello di anteguerra. Il reddito nazionale del 1945 era metà di quello del 1938. L’ordine pubblico era sconquassato dalla delinquenza. La ripresa “autoctona” fu inaspettatamente rapida: nel 1946, la produzione industriale era arrivata già al 70% di quella del 1938. 

Le nuove logiche geopolitiche vedevano il Paese come una cerniera fra l’Europa Occidentale, l’Est-Europa, il Medio-Oriente e l’Africa, così da meritare di godere del Piano Marshall, valutabile in circa 1,2 miliardi di dollari dell’epoca. Avviato nel giugno 1948 e attivo fino al 1951, il piano riuscì a risollevare l’Italia, consentendole politiche industriali per la ricostruzione e la crescita economica. Il piano Marshall avrebbe portato all’entrata italiana nel Mercato Comune Europeo (MEC) nel 1957. Nel giro di pochi anni l’Italia divenne uno stato industriale già al settimo posto tra i più industrializzati.

L’IRI, nato sotto il fascismo per contrastare la grande crisi del 1929, nel dopoguerra allargò i suoi settori di intervento, modernizzò e rilanciò l’industria di Stato  durante le fasi della ricostruzione post-bellica e l’inizio poi del boom degli anni 1960; nel 1980 l’IRI era un gruppo di circa 1000 società e con più di 500.000 dipendenti. C’erano dentro STET (la telefonia di Stato) e RAI, Alitalia e Autostrade, Ansaldo e Alfa-Romeo, Lloyd Trieste, Finmeccanica e Italsider, l’acciaio di Taranto poi ILVA: conobbi Petrilli quand’ero studente (a dire il vero conobbi anche Saraceno, ho qualche anno), era un signore piccolo e gentile ma era il dominus delle “cattedrali nel deserto” della siderurgia.  Con le curve dell’acciaio poi in picchiata (tutto ormai era di alluminio), il disastro economico andò di pari passo con quello ambientale.

Quella grande espansione economica fu determinata da vari elementi cospiranti:

  • una favorevole congiuntura internazionale, caratterizzata da un incremento del commercio 
  • la disponibilità di nuove fonti di energia con la scoperta del metano in Val Padana 
  • l’impulso dato dall’IRI all’industria regina dell’acciaio, fornito internamente a ottimi prezzi 
  • il basso costo del lavoro, favorito dalla disoccupazione

Lo sviluppo non fu omogeneo, anzi peggiorò lo squilibrio tra nord e sud, con l’imponente immigrazione interna verso Torino e Milano ed esterna verso USA, Germania, Svizzera e miniere del Belgio. Non mancavano altri effetti negativi al boom dei favolosi Sessanta, come l’abbandono delle campagne e un caotico sviluppo edilizio in ispregio all’ambiente e alla storia.

Mentre si affermava il prestigio dello stile e della cultura italiani (moda, cinema, musica melodica, opera lirica), erano alle porte i tremendi anni 1970. A valori storici, PIL del 1970: 35.267 mn euro. PIL del 1980: 203.383 mn euro. In mezzo, tanta inflazione da import, soprattutto del petrolio, che schizzò alle stelle per tutta Europa e paesi colpiti dall’embargo arabo. La guerra del Kippur tra arabi e israeliani infatti determinò lo choc petrolifero del 1973; sei mesi di embargo portarono nel 1974 il prezzo del barile da 3 $ a quasi 12 e quel periodo viene ricordato per le domeniche a piedi e la circolazione delle auto a targhe alterne.  I prezzi dei derivati della lunga filiera petrolifera aumentarono di cinque volte. Il saggio di sviluppo dei paesi Ocse per l’Italia si dimezzò, dal 5,7% al 3,1%; la tempesta perfetta, odiosa e a volte imbecille espressione, ma qui calzante, era completata da una crisi della domanda interna,  creando la cosiddetta stagflazione, nessuno compra perché non ha soldi eppure i prezzi continuano a crescere, in barba a domanda-offerta. Non ci siamo fatti mancare nemmeno questa. 

Il dibattito politico era tra congiunturalisti (rimedi ad hoc caso per caso) e strutturalisti (riforme quadro che però richiedevano forti alleanze, cioè PCI e CGIL, sempre lì si cadeva); il dibattito econometrico era invece tra restrizionisti, preoccupati dai vincoli esterni (migliorare la famosa bilancia dei pagamenti riducendo le importazioni) ed espansionisti  (bilanciare la bolletta petrolifera con maggiore spesa pubblica). Prevalse la linea di rigore di Bankitalia: tagli sulla domanda, deposito obbligatorio sulle importazioni (una cosa veramente inusitata, a ben pensarci), stretta fiscale, limitazione del credito, surplus di fabbisogno finanziato con la creazione di base monetaria. Ecco spiegata la stagflazione. Conseguenza: accordo tra Confindustria e sindacati (tagliando fuori un governicchio Rumor) sul punto unico di  contingenza, che permetteva ai lavoratori di recuperare la dinamica inflazionistica: era la rincorsa prezzi-salari, la “scala mobile”. 

Gli anni settanta si erano aperti con la fine del sottosalario e la bomba alla Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana del dicembre 1969, che avviava la stagione delle stragi e degli opposti estremismi. Già il fragore di sciabole e le turbolenze neofasciste si erano fatti sentire al momento del varo del centrosinistra di Moro e Nenni negli anni sessanta. Ora subentra una strategia frettolosamente ascritta ai “servizi deviati” e all’immancabile Banda della Magliana, come se anche questi non fossero pezzi d’Italia. Magari a bassa scolarità, mentre nel campo opposto militano professori di Fisica e cattivi maestri.

Gli anni 1970 sono stati l’Eden della mia giovinezza, di studi bellissimi, dei primi amori. Li rivivrei con tutta l’anima, futuro incerto ma alzarsi ogni mattina con un pezzetto di quel futuro da costruire e con la speranza di arrivare vivi a sera. Ma furono anni di assoluto caos: conflittualità sindacale permanente, nulla funzionava, mancavano perfino le monete e si dava il resto in gettoni telefonici, in caramelle, in miniassegni bancari e nessuno ha mai capito perché. Anni accademici annullati, sequestri di persona quotidiani, industriali che scappano o mettono il malloppo in Svizzera, il  voto ai diciottenni che parte destinato ai poster del Che e finisce mestamente alle Botteghe Oscure. 

Svaniva un costume arcinoto e arrivava qualcosa di cui solo vagamente si intuivano i contorni. Inquinamento selvaggio, le rogge attorno a Milano ribollenti di schiume. Ricordo vent’anni dopo, quando entrai in Montedison, la fabbrica di Rodano (MI): stava a ridosso delle case e gli svedesi non ne volevano sapere di accollarsela; poi mi si disse che lo stabilimento preesisteva, furono gli operai a volere le case vicino al lavoro. Quasi tutto lo stipendio era “contingenza”, cioè aggancio automatico all’inflazione, con esito l’appiattimento salariale: l’infermiere anziano prendeva di più del primario giovane, la segretaria del manager, la maestra meno del bidello. Le aziende decotte venivano caricate sul carrozzone statale GEPI, venivano “gepizzate”.

E il capitolo anni di piombo, le BR. Ogni sera il TG in bianco e nero riportava un attentato, una gambizzazione, giudici, giornalisti, politici, economisti, uomini d’azienda, perfino sindacalisti. E poliziotti e carabinieri. Il caso Moro, rapito proprio quando si varava  il primo “governo della non sfiducia” data ad Andreotti dal PCI di Berlinguer e Pecchioli. Non era compromesso storico, che non si fece mai se non quando falce e martello erano spariti. Del rapimento e della morte di Moro, padre dell’apertura a sinistra invisa agli americani e a Kissinger, non credo ormai si saprà più altro. In Via Fani sparò il 90% dei colpi un solo, professionale mitra, non quello dei diafani personaggetti che si sono poi gloriati come autori. E poi ditemi: ma non avreste chiamato il 113 se foste stati inquilini di Via Gradoli, con tutto quel viavai ? E Gradoli uscì da una seduta spiritica … andiamo.

Qualcosa poi si mosse. Legge Merli 1976 “Igiene del suolo e dell’abitato. Norme per la tutela delle acque dall’inquinamento”. Inflazione: aveva toccato un minimo degli anni 1960 nel ’68 con +1,4% ma al ’70 era già al +5% e dopo lo choc petrolifero toccò un raggelante +19,1%, scese al +12,1% nel ’78 ma all’apertura del 1980 si presentò con il max di sempre +21,2%. Ancora nel 1982, mio padre per la laurea mi lanciò nella vita con 5 milioni di lire (2500 euro attuali) dicendo: ti compri i BOT e te ne ridanno 1 (restituivano l’inflazione). La congiuntura economica virtuosa, la reaganomics, le politiche monetarie di Craxi iniziarono ad abbattere prima le due cifre, poi l’unica: l’inflazione scese sotto il +10% tra l’84 e l’85, nel 1990 era +6.5%, nel 1999 (ormai in vista euro) era +1,7%: problema chiuso, per volontà dei tedeschi che hanno l’ossessione antica del biglietto di tram a 1 mld di marchi.

Nel 1977, l’indice borsistico milaneseaveva toccato il minimo storico dal dopoguerra per via del difficile contesto energetico (a volte ritornano). La riscossa del mercato azionario si registrò però nel 1983 con la costituzione dei fondi comuni d’investimento di diritto italiano, comprati da un numero sempre crescente di risparmiatori che vedevano la possibilità di diversificazione, e con l’ottimo andamento industriale che innescò il loop positivo economia-finanza. Per quattro anni, le quotazioni azionarie continuarono a crescere nell’euforia dei piccoli investitori, con guadagni a doppia cifra. Fino al lunedì nero del 19 ottobre 1987 quando una tempesta finanziaria travolse Wall Street e di riflesso tutte le altre piazze finanziarie mondiali. “Nulla cresce fino al cielo”, dicono i finanzieri americani, c’era da aspettarsi il reset. Sempre attorno al 1977, iniziò l’epoca dei servizi, con conseguente calo della grande impresa a vantaggio di dimensioni minori. Così si gettarono le basi per una selettiva e formidabile struttura medio-industriale al passo con i tempi. Il downsizing industriale (prevalentemente di Stato) lanciò le PMI del nord-est, dinamiche e innovative anche se deboli finanziariamente e questo si rivelò la croce dei nostri tempi attuali. Intanto, la mia giovinezza e i suoi amori se n’erano andati. 

Comunque, a strappi e botte di, diciamo, fortuna, arriviamo quarta economia al mondo, superando lo UK in piena depressione thatcheriana. Qui Craxi non fa austerity da formichina, fa la cicala: perché frenare la Milano da bere, la smania dei parvenu che sorbivano i vini del Reno (riecheggia Gaber) ma non leggevano né libri, né giornali ? Anzi, il debito pubblico esplode, dal 56% del 1980 al 104% del 1992 sul PIL: se il nord furoreggia con i suoi fatturati, il sud deve andargli dietro ma a spese di Stato. Alla prima crisi (1991), questo sarà il mantra della Lega di Miglio e Bossi.  Nasce il “macigno del debito pubblico”: una bella narrazione del suo andamento storico in rapporto al PIL qui.

Negli anni 1980, oltre a non rimettere in ordine le finanze pubbliche, manchiamo un altro appuntamento, quello con il sistema alla francese delle grandi imprese eccellenti di Stato. La Francia, che avevamo superato, da sempre sosteneva le aziende leader a partecipazione statale, settore per settore: farma, automobile, chimica, cantieristica, aeronautica e aerospaziale, elettronica. Il Presidente francese è l’ultima e migliore approssimazione del monarca assoluto, un Re Sole che comanda un sistema centralizzato e altamente integrato. Noi lasciamo la grande industria alla contesa politica e al trasformismo discontinuo che essa porta; perdiamo con Olivetti l’autobus della cibernetica. E’ la terza eccellenza che ci fumiamo, dopo idroelettrico e nucleare; la quarta, se contiamo le macromolecole plastiche della Montecatini.

Guardiamo oggi le grandi aziende, privatizzate a partire dalla finanziaria monstre di Amato del 1992 da 90,000 mld di lire:

Era praticamente tutta roba di Stato ma l’IRI andò de facto a morire con quella finanziaria. Dove è entrato capitale straniero, vedi Telecom, l’occupazione si è abbattuta. Tentativi visionari non erano mancati: Schimberni sognò una Montedison public company per il polo chimico ma perse la sua battaglia, in Italia andò avanti il sistema Cuccia-Mediobanca, dei salotti buoni, di quella che Eugenio Scalfari, parlando di Cefis, definì “razza padrona”, era privilegiata nel privato la FIAT dei patti di sindacato che pemettavano, con vincoli incrociati, di comandare con il 30% di capitale: era così dura da spiegare, questa cosa, ai colleghi d’oltreoceano. I Ferruzzi, che entrarono in Montedison venendo dalle granaglie, si lanciarono nella folle sfida Enimont: creare con ENIChem una chimica colossale pubblico-privata. Mesi di litigi e intromissioni politiche, alla fine lo sfascio e rimase una maxi inchiesta sulla madre di tutte le tangenti.

Mattei prima che misteriosamente cadesse il suo aereo, vicino a Pavia nel 1962, aveva pensato un’energia italiana, sapeva fare il petroliere senza petrolio ed era inviso alle Sette Sorelle. Il nucleare era partito benissimo negli anni 1950, poi s’inceppò sul piano di 12,000 MW con i francesi, che fecero la parte loro e piazzarono i Super-Phénix lungo le Alpi e oggi ci vendono l’ “energia della morte”. Chernobyl doveva imporre una seria moratoria, invece pose una pietra tombale e non ci si occupò più di energia lato sensu, aldilà dei PEN formali; il petrolio era basso e di gas se ne usava poco, si sapeva che sotto ne avevamo, prima o poi qualcuno avrebbe fatto qualche buco in Adriatico (infatti: i croati spinti dai tedeschi).

Si diceva della fine IRI industria di Stato con la finanziaria di Amato: partirono, per fare cassa, privatizzazioni senza vere liberalizzazioni dei mercati, iniziò il tormentone di Maastricht e con esso il “serpente monetario” con la banda di oscillazione. Entra ed esci, svalutazioni competitive della lira: l’Italia contropiedista e catenacciara non se la giocò male, consolidando un ottimo export con la liretta. Alcuni dicono che la nostra immediata ammissione all’euro senza “doppie velocità” avvenne proprio per arginare l’Italia che giocava sul cambio e la conventio ad excludendum  appare oggi riuscita. Decisero Kohl e Chirac.

Giungiamo così a Tangentopoli, salta il sistema partitico-collusivo; è la fine della DC, che era stata tanto (riforme agrarie, infrastrutture, scelta atlantica, benessere abbastanza equo per tutti), poi sfaldata e collusa, forse proprio a partire dagli “opposti estremismi”, paradosso degli anni 1970: BR e al tempo stesso minaccia di golpe a destra. E’ il tramonto di Craxi e del suo terzo polo, mai arrivato al 15%, della sua “politica facilitativa” del business. La magistratura riempie il vuoto della politica implosa e a quel punto entra Berlusconi, con il che Tangentopoli vira nella contesa fra Arcore e la Procura di Milano. 

Fu una guerra per la legalità o un intralcio alla modernizzazione, che in quegli anni scappò via come un treno perso prima di salirvi ? Il tycoon scese in campo per salvarsi o per dare una risposta alle domande inevase del Paese: meno burocrazia, chiarimento sul post-comunismo, più libera impresa ? Questo è infatti il punto: Berlusconi è giudicato da molti il problema, da altri solo una delle risposte, altre ne vennero, una domina oggi il Parlamento sulla scia delle invettive di un ex-comico. Il sistema elettorale maggioritario reggeva bene questa temperie ma inevitabilmente evaporò e Berlusconi stesso trascolorò nel gioco dei partitini e dei “responsabili”.

Alcuni vedono l’inizio del declino in Tangentopoli: quel sistema colluso c’era da sempre e sarebbe tornato, anzi tornò legalizzato dai dottori sottili del deep state, perché squinternare l’Italia per abbatterlo ? Altri pongono l’accento sulla caduta dell’importanza geopolitica del Paese: la porta di nord-est non si apriva più sull’impero del male che aveva preoccupato le presidenze repubblicane USA iperansiose del comunismo, Nixon, Reagan, Bush padre. Altri sottolineano la dura recessione del 1991: l’avv. Agnelli  disse che la festa era finita, dalla Milano da bere a un’Italia in bianco e nero, come si notò nello spot di un altro superalcolico; fu necessaria la finanziaria monstre con le privatizzazioni frettolose. Combustibile,  comburente e innesco, all’inizio degli anni 1990: il declino prese fuoco. Poi l’euro alto e rigido, e la Cina low-cost

Vi fu un come-back a fine secolo, sostenuto tra l’altro dall’illusione informatica (internet, gli investimenti per il bug del millennio 2k). La bolla speculativa internazionale telecomunicazioni, tecnologia & media-entertainment si sgonfiò prestissimo. La Lega, ascesa e caduta: Bossi passò dalla secessione alla devoluzione. La spesa sanitaria, sistema regionalizzato dalla riforma degli anni 1970, fu il banco di prova su cui cadde l’illusione di devolvere, appunto, funzioni centrali alle strutture federali del nord: una volta confrontati con i costi standard degli ospedali, i leghisti assaggiarono l’amara lezione dei numeri politici. I ricoveri costerebbero di più in Lombardia che al Cardarelli …

Entra l’euro, nasce il buromostro di Bruxelles. Inizialmente, il debito pubblico non faceva parte di Maastricht; lo spread era solo una finezza per menti finanziarie lambiccate; il trattato, che rende per legge inevitabile l’immigrazione dall’Africa del nord solo in Italia, non era così. Le crisi finanziarie globali successive non sono crisi nostre: semplicemente sono congiunture che fanno da redde rationemalle nostre deteriorate condizioni economiche e politiche. Il sonno della ragione genera i 5S. E siamo qui, Covid, guerra, gas.

Elementi in grado di generare il declino ormai pressochè continuo dal 1991 ad oggi, come vedete, ne abbiamo dissotterrati e affastellati tanti, ognuno può scegliere quali ritiene siano i più attendibili. Oggi?

Il 23,9% dei ragazzi tra i 15 e i 29 anni non studiano e non lavorano (NEET), circa 3 milioni. No Education, Employment or Training. La quota di 25-64enni laureati in Italia nel 2020 è pari al20,1% (media europea 32,8%). I dati italiani inoltre variano molto in base alla fascia sociale, al genere e alla geografia. 

Facoltà con più studenti:

Fonte Miur Biennio 2018-2019

E’ un buco nero, quello università-lavoro, difficile da decifrare ma in fondo al quale si intuiscono profonde e antiche verità. Pare che manchi ogni sorta di collegamento: le facoltà sono quelle giuste ma lavoro non se ne genera. Vedremo in Parte Seconda di approfondire.

Le competenze digitali di base si attestano al 42% nelle persone tra i 16 e 74 anni. Solo il 22% possiede delle competenze più avanzate. Inoltre, gli specialisti che lavorano nell’ICT sono solo l’1% della forza lavoro, avete letto bene. La digitalizzazione dei servizi nella Pubblica Amministrazione è utilizzata ancora da pochi cittadini. Anche il quadro relativo alla digitalizzazione delle imprese è carente. Siamo indietro in questo ambito rispetto all’Europa. Anche in ambito e-commerce. C’è scarsa propensione alla digitalizzazione del Paese (fonte: Accademia Civica Digitale).

La Banda Ultra Larga (BUL) è ancora al 35%.

Fonte MISE (a marzo 2022)

Analizzando il PIL italiano dal 1946 al 2020  si constata che tra il 1980 e il 2000 il tasso di crescita medio, al lordo dell’inflazione, è stato del 9,6%, contro quello dell’1,5% registrato tra il 2000 e il 2020, con PIL attestato pre-Covid a 1.789.747 milioni di euro. I motivi per cui, tra il 2008 e il 2020, il PIL italiano è cresciuto sistematicamente meno rispetto agli altri paesi europei andranno analizzati in Parte Seconda. Di certo pesa il pagamento di interessi passivi sull’enorme debito pubblico accumulato nel passato e ancora in crescita; un superavit primario, cioè al netto del servizio sul debito pubblico, si ebbe a fine anni novanta sotto Prodi 1, per l’ingresso nell’euro. Poi, vi sono evidenti criticità legate alla bassa produttività di molte imprese, ai bassi investimenti pubblici e privati in ricerca e informatizzazione, a fenomeni corruttivi e di criminalità, a un forte peso dell’evasione e dell’economia sommersa. Tutte cose ampiamente sentite.

Ritroviamo, al fondo, un elevato tasso di disoccupazione che si associa (post hoc o propter hoc) a una grave crisi demografica (ne parliamo in Seconda Parte). Vi è infine un problema legato alla disomogeneità geografica. Di seguito, una sintesi grafica del PIL pro-capite nelle singole regioni al 2019.

Fonte Italia In Dati – ISTAT

E per finire i salari, se non è declino questo …. :

Fonte Onnepolis – OCSE

Biblio 

“L’economia italiana dal 1945 a oggi”, Patrizia Battilani – Francesca Fauri, Il Mulino

Back to top button