
Che la ricerca italiana fosse la fucina della fisica nucleare, ci sono pochi dubbi. Anche l’uomo della strada sa chi è stato il premio Nobel Enrico Fermi, e ci sono buone probabilità che anche il gruppo dei Ragazzi di via Panisperna sia conosciuto ai più.
Fermi fu il titolare della prima cattedra di fisica teorica in Italia, appositamente allestita per lui, e raccolse intorno a sé un piccolo gruppo di giovanissimi fisici, che mediamente avevano poco più di vent’anni: Edoardo Amaldi, Franco Rasetti, Emilio Segrè, Bruno Pontecorvo, Ettore Majorana e il chimico Oscar D’Agostino.
Questa squadra di geni descrisse per prima le proprietà dei neutroni lenti, gettando le basi per la creazione della prima reazione nucleare a catena e, per usi bellici, per la costruzione della prima bomba atomica.
Fermi, Pontecorvo, Segrè e Rasetti lasciarono in momenti diversi l’Italia: quest’ultimo per il deteriorarsi della situazione politico-sociale conseguente alla progressiva presa di potere della dittatura fascista. I primi tre in conseguenza delle Leggi Razziali – Fermi aveva sposato una donna ebrea, ed ebrei erano sia Pontecorvo, che Segrè. Ettore Majorana fu protagonista di un’improvvisa quanto tuttora insoluta scomparsa. Edoardo Amaldi, addirittura, fu richiamato alle armi durante la Seconda Guerra Mondiale.
Le ricerche sull’energia atomica, tuttavia, non si fermarono, ed è allo stesso Amaldi, e a un nuovo gruppo di giovani fisici denominati I ragazzi di via Giulia – tra cui il geniale Ettore Pancini – che va fatta risalire la continuazione della grande scuola di fisica nucleare italiana.
In pochi decenni dopo la guerra il nostro Paese ha visto la costruzione di quattro centrali principali: Latina, Sessa Aurunca, Caorso e Trino Vercellese, rendendoci uno dei maggiori produttori di energia elettronucleare al mondo. Una quinta centrale avrebbe dovuto essere costruita a Montalto di Castro, ma alcuni eventi sopravvenuti ne impedirono la realizzazione.
Nel novembre 1987, infatti, un referendum popolare organizzato principalmente dal Partito Radicale e dai costituendi Verdi diede un colpo definitivo allo sviluppo della produzione elettronucleare in Italia, abrogando una serie di normative propedeutiche all’installazione di nuove centrali e addirittura alla partecipazione italiana a centrali nucleari all’estero.
Per comprendere i driver di quel voto, va innanzitutto ricordato che l’anno prima l’incidente di Chernobyl aveva gettato nella paura l’intera Europa. Per mesi si smise di consumare latte e verdure, e la sconosciuta località russa – oggi in Ucraina – divenne sinistramente nota.
Va inoltre detto che si era ancora in piena Guerra Fredda. Le due superpotenze mondiali minacciavano di incenerirsi tutti i giorni, e la popolazione italiana viveva nell’incubo della guerra nucleare. Solo tre anni prima, il film The Day after aveva mostrato con dettagli per l’epoca impressionanti le conseguenze di un conflitto atomico. Persino il mondo della canzone costruiva con Russians di Sting una parte dell’immaginario collettivo, associando indelebilmente nella mente specie dei ragazzi il nucleare al male. E furono in particolare quei ragazzi, cresciuti avendo negli occhi l’incubo della distruzione delle loro vite ancora non vissute, a votare massicciamente a favore dei quesiti referendari.
Insieme alla mancata realizzazione della centrale di Montalto ed al progressivo spegnimento delle altre, il referendum abrogativo causò virtualmente la fine dell’ENEA in quanto attore di ricerca in campo atomico. La scuola italiana di fisica nucleare si vide nei fatti cancellata dal tratto di penna di milioni di cittadini terrorizzati, di cui solo una piccolissima parte aveva forse coscienza delle implicazioni civili e geostrategiche di quella scelta.
I ragazzi di allora sono oggi cinquantenni, e con buona pace dei boomers che ancora condizionano tante delle nostre scelte economiche e civili, sono oggi la classe dirigente del Paese. Va quindi probabilmente riaperto un discorso con noi stessi, alla luce di quasi quarant’anni di vita e di esame della realtà, e bisogna ripensare a quella decisione.
Il primo dato di realtà è che negli ultimi quarant’anni nel mondo c’è stato un solo incidente grave ad una centrale nucleare: quello di Fukushima, legato peraltro a condizioni eccezionali ed esterne alla centrale – un terremoto e conseguente maremoto. Il secondo dato di realtà è che al di fuori dei nostri confini nazionali siamo circondati di centrali nucleari di Paesi che ne sfruttano il potenziale per avere una bolletta energetica moto più sostenibile della nostra. In caso di incidente ad una qualunque di esse, ne subiremmo tutte le conseguenze, senza goderne i benefici – un fallout radioattivo non conosce confini statali. Il terzo dato di realtà è che la nostra industria e la nostra vita civile è energivora, e la sua prosecuzione – specie in una situazione di spinta verso lo smartworking e l’elettrificazione del parco auto – dipende dalla disponibilità costante di energia. Il nostro assetto presente ci rende invece quasi completamente dipendenti dall’estero: dal gas russo, dal petrolio mediorientale e dal nucleare, quello degli altri.
La conseguenza di tutto ciò è che con il nostro assetto energetico, ed in attesa dell’ampliamento della capacità di conservazione dell’energia elettrica in batterie ad alta capacità – profetizzata ad esempio da Elon Musk – dobbiamo trovare un modo per colmare la discrepanza tra esigenze d’uso e capacità di approvvigionamento.
Se questo vorrà dire un ritorno al nucleare, bisognerà deciderlo nelle sedi tecniche ed economiche competenti, e quindi istituzionali. Diciamo tecnico-economiche, perché una decisione che ha a che fare con il presente ed il futuro strategico del Paese non può essere affidata ad una classe politica che – di nuovo un dato di realtà – non brilla per visione ed acume strategico. Tanto meno può essere affidata ad una torma di cittadini umorali e spaventati, incapaci di valutare il merito ampio delle questioni e di rendersi conto delle conseguenze a lungo termine delle proprie azioni.
A quel lontano referendum un me diciottenne, appassionato ambientalista e per pura inesperienza di vita con una visione estremamente ristretta del mondo, votò sì.