
Nell’ultima votazione che si è tenuta all’ONU, circa la permanenza della Russia nel Consiglio dei Diritti Umani, si è vista la netta prevalenza di coloro che sostenevano l’incompatibilità di Mosca in tale consesso, a seguito dell’invasione dell’Ucraina. Con due pesanti eccezioni: Cina e India. La prima ha votato contro mentre la seconda si è astenuta.
Sull’alleanza Cina-Russia è noto che il rapporto si è rafforzato negli ultimi anni soprattutto in chiave antiamericana. La strategia cinese è quella di avere un solo avversario nel pacifico. L’alleanza con la Russia in tal senso è strategica e favorisce i piani di Pechino. Xi Jinping così può proseguire verso i suoi obbiettivi fondamentali che sono:
- Continuare a potenziare il potere del Partito unico all’interno della Cina; continuare a crescere economicamente, militarmente e tecnologicamente
- Creare una sempre maggiore dipendenza degli altri Paesi verso l’economia cinese, e sostituirsi così, nel tempo, agli Usa.
In tal senso si sta attrezzando anche nei confronti del dollaro come moneta egemone negli scambi commerciali. Già tre anni fa Pechino ha creato un avanzatissimo sistema digitale per gli scambi con il “Renminbi”, la moneta cinese. Questo sistema digitale è come una meravigliosa autostrada nuova di zecca ma senza automobili. Ma con le sanzioni che adesso stanno colpendo la Russia alcuni analisti prevedono che questa autostrada possa cominciare a vedere del traffico proprio per gli scambi monetari con il rublo. In tal modo assisteremmo alle prove generali per un allargamento dell’uso della moneta cinese nelle transazioni internazionali.

La Cina, dunque, sulla questione Ucraina mantiene una posizione molto ferma sia nel non condannare la Russia e sia nel non danneggiare il suo commercio internazionale ed i suoi piani di lungo periodo.
L’altro grande attore asiatico è l’India che in questi ultimi giorni ha visto il suo ministro deli esteri, Subrahmanyam Jaishankar, estremamente indaffarato nel ricevere le visite degli omologhi provenienti da est e da ovest. In particolare, il 25 marzo è avvenuto l’incontro con Wang Yi, ministro degli esteri cinese. Visita questa di grande peso in considerazione delle difficili relazioni tra i due paesi soprattutto dopo gli incidenti del 2020 nella regione himalayana settentrionale del Ladakh. “La continuazione della situazione attuale non è nel nostro reciproco interesse”, queste le parole pronunciate durante i colloqui secondo una fonte interna indiana.
L’India da sempre ha mantenuto una posizione di equidistanza tra est e ovest. Anche durante la guerra fredda. Ma è indiscutibile che l’asse con Mosca è molto forte. Oltre il 70% delle sue forniture militari provengono dalla Russia. Nel settembre del 2019 il presidente indiano Modi e quello russo Putin si incontrarono a Vladivostok, dove fra le altre cose, fu siglata un’intesa per la cooperazione dell’esportazione di idrocarburi per il quinquennio 2019-24. Ad oggi, anche a seguito di una riduzione del prezzo del petrolio russo del 30%, l’India ha già importato da Mosca più del quantitativo che aveva importato in tutto il 2021.

L’India fa parte del QUAD un’alleanza con USA, Giappone, Australia; è un trattato strategico per i paesi occidentali che cercano di sfruttare il peso indiano in funzione anticinese. Ma l’India non si lascia distogliere dai suoi interessi nazionali e anche se vi sono state forti pressioni dagli Usa affinché aderisse alle sanzioni contro Putin, al momento la posizione è quella di una sostanziale equidistanza: la pace sì, ma senza mettere in pericolo gli interessi vitali della nazione. In un dibattito parlamentare di qualche giorno fa è stata lanciata la proposta che il governo indiano si faccia carico di una mediazione di pace proprio in virtù dei suoi buoni rapporti con Putin e con gli Stati Uniti, mostrando così l’ambizione questa volta, di non rimanere alla finestra ma cercare di incidere positivamente nella risoluzione del conflitto.
Gli Stati Uniti sono, per il ruolo egemone che ricoprono, coloro che potrebbero sbloccare il conflitto. Tutto lascia pensare però che questa guerra continuerà, sia visti i toni fin qui usati da Biden e sia a seguito delle recentissime affermazioni del Capo di Stato Maggiore della difesa americano, Generale Mark A. Milley, che ha confermato, che la cessazione delle ostilità non avverrà in tempi rapidi.

Gli Stati Uniti, del resto, non hanno problemi di approvvigionamento energetico. Anzi il loro “shale oil” sta tornando a vivere un periodo d’oro così come le esportazioni di gas liquido venduto a caro prezzo. Per non parlare del settore bellico dove il riarmo annunciato dell’Europa ha fatto schizzare le quotazioni in borsa delle principali compagnie del comparto difesa. Anche nel settore alimentare gli Stati Uniti hanno molto meno da temere per ciò che attiene l’interruzione della catena di produzione e distribuzione. Nello specifico per ciò che concerne la produzione di grano gli USA sono il quarto produttore al mondo dopo Cina, India e Russia. Seguono Canada, Francia e Ucraina. Per intenderci paesi come Israele hanno già lanciato un allarme interno per evitare che la catena di approvvigionamento si interrompa a breve, proprio a seguito dello stop di esportazione da parte di Russia e Ucraina. La questione è estremamente delicata e potrebbe causare stati di rivolta in paesi come quelli africani nei quali la variazione di prezzo e quantità potrebbe non essere accettata dalle popolazioni. Si ricordi che la primavera araba in molti paesi si innescò proprio dall’aumento del prezzo di alcune materie prime.

Dunque, anche gli Usa, dal contrasto alla guerra di Putin, non vedono il danneggiamento dei propri interessi nazionali. Un indebolimento oltre misura della Russia, derivante dal prolungamento del conflitto gioverebbe certamente ai loro piani.
E l’Europa?
Siamo i più vulnerabili. Naturalmente in misura maggiore o minore in relazione a quale paese ci riferiamo. Nel suo insieme la politica europea è quella di non avere una sua politica. Sembrerebbe che la posizione della Nato e dunque quella degli Stati Uniti sia la via seguita da Bruxelles. Il Segretario della Nato, Jens Stoltenberg, si affretta quasi quotidianamente a rilasciare dichiarazioni incendiarie che sembrano allontanare la possibilità di instaurare una via di pace. Recentemente ha affermato che ci sarebbe una corsia preferenziale all’entrata nella Nato della Finlandia; come noto la Finlandia è stata un esempio di neutralità tra est e ovest pur condividendo oltre 1300 km di confine con la Russia.

In caso di sospensione degli approvvigionamenti energetici, si porrebbe un immediato problema per le industrie soprattutto per quelle più energivore e la prospettiva di una recessione è già contabilizzata.
Si parla spesso di una difesa unica per l’Unione Europea, ma fino ad ora si è ottenuto solo il varo dello “strategic compass”, la ”bussola strategica” che dovrebbe contare circa 5000 militari ed i cui compiti non sono del tutto chiari. Forse potrebbero essere impiegati in una evacuazione del personale delle ambasciate in caso di necessità. Ma non molto di più. Intanto molti paesi corrono a riarmarsi. La Germania in testa. Anche se rimane oscuro a quale modello di difesa queste enormi spese si debbano ispirare.

Sembrerebbe dunque che al contrario delle altre potenze noi siamo gli unici a non fare un passo avanti nella difesa dei nostri interessi vitali e allo stesso tempo nemmeno nella direzione di un serio tentativo di portare Russi e Ucraini ad un tavolo di pace.
Le leve persuasive non mancherebbero, ma ci vuole la volontà e quella sembra essere del tutto latitante.