
I drammatici venti di guerra che soffiano da est ci pongono in una prospettiva del tutto diversa rispetto a quella utilizzata per analoghi eventi in un passato anche relativamente recente. Ora il pilastro centrale su cui ruota la complessità degli accadimenti non è tanto quello dei fatti in sé bensì della modalità con la quale i fatti vengono rappresentati. Fin qui in realtà nulla di nuovo, perché già Mac Luhan, padre della moderna comunicazione, sosteneva che non esiste il fatto, ma la notizia del fatto. Questo perché l’accesso alla notizia da parte dell’opinione pubblica è un accesso “mediato” da altri soggetti/strutture che più o meno consapevolmente contaminano o addirittura inquinano la notizia che devono trasmettere.
Che ci sia un peccato originale in tutto questo è già nella definizione di “media” che noi moderni attribuiamo al complesso dei mezzi di comunicazione. Innanzitutto pronunciamo questo termine “midia” quando invece si pronuncia come si scrive perché non è inglese, ma latino ed esattamente plurale di medium. Il termine “media” costituisce quindi una grossolana contraddizione in termini, perché “media” significa appunto equidistante, che sta in mezzo mentre è del tutto improbabile che chi rappresenta un evento sia perfettamente asettico ed equidistante rispetto ai significati che tale evento può assumere.
La rappresentazione dell’evento da parte di chi lo riporta risentirà infatti di una serie infinita di fattori tra i quali possiamo citare la formazione scolastica, il credo religioso, l’ideologia politica, l’educazione ricevuta, l’estrazione sociale, l’etnia di appartenenza, la condizione emotiva. Restando nell’ambito della buona fede penso di potermi fermare qui.
Se invece consideriamo la possibilità di manipolare artatamente la notizia per raggiungere un secondo fine che travalica gli ambiti della cronaca, il moltiplicatore diventa esponenziale. Attribuire all’avversario ogni sorta di nefandezza non è cosa recente. Da sempre in qualunque tipo di conflitto militare e non solo, sono stati prodotti grandi sforzi per convincere la propria parte di essere nel dominio del bene assoluto relegando conseguentemente l’altro nelle tenebre del male. Ma perché in passato non si è assistito a quello sgretolamento dell’informazione che oggi ci lascia il più delle volte storditi ed incapaci di elaborare una visione personale? La domanda è semplice, ma la risposta temo potrebbe non esserlo altrettanto.
Azzardo un’ipotesi e provo a dimostrarla. Il tessuto sociale bersaglio della comunicazione era una volta più compatto e quindi in grado di reggere i messaggi di cui era destinatario senza frammentarsi. Se fratture c’erano, erano per blocchi, non per cellule. Le stratificazioni sociali erano minori, le distanze tra uno strato e l’altro molto marcate, i messaggi e soprattutto i mezzi per diffonderli limitati. L’analfabetismo diffuso e l’istruzione concentrata sulle classi superiori costituivano il binario naturale che incanalava la comunicazione verso i destinatari. In quegli anni se dovevi comunicare qualcosa prendevi la penna, scrivevi, imbucavi la lettera ed aspettavi trepidante la risposta che arrivava dopo settimane. Oppure ti mettevi in fila e telefonavi dal posto pubblico.
Avevi tanto tempo per pensare a ciò che volevi comunicare, il contenuto del messaggio era conseguentemente accurato. Scrivevi in brutta copia, rileggevi, stracciavi e ricominciavi daccapo. Con dieci gettoni in tasca dovevi avere ben chiaro in testa cosa volevi dire. Se telefonavi al posto pubblico chiedevi al gestore di bussare alla porta della cabina una volta raggiunto un numero di “scatti” compatibile con il tuo budget. Non c’erano twitter generati da incontinenza comunicativa, ma messaggi accurati, ponderati, soppesati nelle conseguenze, affinati in base ai riscontri ricevuti.Sembra preistoria, ma erano gli anni 70. Si aveva molto da dire, ma mezzi scarsissimi per poterlo fare.
Oggi si ha pochissimo da dire, ma i mezzi a disposizione sono moltissimi e diffusi. Nella bulimia comunicativa che ne consegue i mezzi finiscono per travalicare un messaggio che spesso addirittura scompare, lasciando nell’etere contenitori che viaggiano pericolosamente vuoti alla velocità della luce. Su questo vero e proprio zoccolo sociale nel 1954 si innesto’ la TV di Stato ispirandosi ai protocolli della BBC inglese che si riassumevano nelle 3 I: informare, istruire, intrattenere. I lettori più anziani ricorderanno programmi come TV7, Almanacco del giorno dopo, il maestro Alberto Manzi, il film del lunedi, Studio Uno o Canzonissima il sabato e la grande opera di divulgazione che portò alla conoscenza della platea molto vasta di chi non aveva avuto una formazione scolastica opere letterarie come il Mulino del Po, i Promessi Sposi, il Conte di Montecristo, i Fratelli Karamazoff. La policy aziendale era rigidissima soprattutto per quanto riguardava abbigliamento, linguaggio e comportamento e si basava sul principio che la TV entrava nelle case degli italiani e che quindi dovesse farlo con educazione. I presentatori erano colti, preparati, rigorosamente in abito scuro e cravatta quando non in smoking, super professionali.
Chi apparteneva alle classi più svantaggiate vedeva rappresentati persone e modelli che lui o lei non sarebbero riusciti ad emulare, ma ai quali forse i loro figli, studiando ed impegnandosi un giorno avrebbero potuto avvicinarsi. E questo era l’argano che supportava l’ascensore sociale.
Il dibattito televisivo era limitato a Tribuna Politica, moderatore Jader Jacobelli. I giornalisti seduti ai banchi come scolaretti e i politici allineati in cattedra come professori. Un minuto per la domanda, due per la replica alla risposta. Chi sforava anche di un secondo veniva rimproverato aspramente e richiesto di alzarsi e scusarsi a capo chino con i colleghi. Cosa avvenne poi nella TV con conseguente impatto sulla societa?
Arrivarono le TV commerciali, all’inizio senza troppi scossoni. A parte qualche scollacciatura peraltro gradita dopo anni di puritanesimo, più o meno si andava in scia a mamma RAI. Il primo passo fu che il dibattito televisivo usci dalle felpate sale di Tribuna Politica per entrare nei più chiassosi set del talk show. Anche qui all’inizio non fu dramma.
Si tendeva più a esibire qualche stranezza, qualche fenomeno da baraccone all’insegna del “venghino signori venghino!” Roba un po’ paesana, ma tutto sommato inoffensiva che ebbe ae non altro il merito di portare alla notorietà qualche discreto talento che diversamente sarebbe stato inghiottito dal nulla. Tutto sommato si manteneva un certo fair play e le svirgolate erano per lo più spontanee, naif e dovute principalmente all’estrazione casareccia di qualche partecipante scaraventato sul palco per farsi quatto risate.
Poi un bel giorno…anzi, no…non era giorno e non era nemmeno bello….una sera, da Maurizio Costanzo arriva un giovanotto con lenti spesse un dito, che nervosamente si passa le mani tra i capelli guardandosi intorno spaesato…il classico nerd, per intenderci. Tutti ne abbiamo avuto almeno un esemplare in classe al liceo. Questo nerd un po’ stralunato, ma che comunque si intuiva dotato di un discreto quoziente intellettivo e di buona cultura, inopinatamente sbrocca e con la bava alla bocca aggredisce urlando una malcapitata che era tra gli ospiti della trasmissione sommergendola sotto una valanga di epiteti per lo più irripetibili. Costanzo sbianca, balbetta, si dissocia…ma poi a mente fredda da quell’animale televisivo che è intuisce di aver inaugurato una nuova era.
Il giovane nerd si chiamava Vittorio Sgarbi ed invecchiando nulla ha perso delle sue peculiarità, anzi le ha rinforzate. Si avviò quindi quella spirale vorticosa che ha portato a tronisti, grande fratello, isola dei famosi ai cui partecipanti veniva regolarmente richiesto di esprimersi in qualità di opinionisti sui temi più svariati.
Ovviamente i poveretti, trovandosi ad affrontare argomenti di cui erano totalmente ignoranti, la risolvevano a urla, parolacce e qualche sganassone, per la gioia dell’audience che si impennava per lo stesso atavico istinto che portava i nostri antenati ad accorrere entusiasti al Colosseo o i nostri contemporanei a rallentare in autostrada per guardare l’incidente sull’altra corsia, possibilmente filmandolo con il cellulare. E nella società che accade?
Che la massa degli spettatori che venti anni prima guardavano la TV con soggezione traendone modelli virtuosi ai quali ispirare l’educazione dei propri figli, oggi pensa di non avere nulla di meno degli animali che vede furoreggiare acclamati sullo schermo, tutt’altro….Perché quindi impegnarsi e sacrificarsi per acquisire competenze distintive quando un paio di comparsate a GF aprono le porte di un radioso futuro da velina candidata fidanzata di calciatore o da tronista futuro influencer?
Si realizza pertanto quello che gli psicologi sociali definiscono lo straniamento dell’uomo moderno di fronte all’orizzonte delle infinite possibilità (che sono cosa ben diversa dalle opportunità). È uno straniamento che porta a non fermarsi, a non chiudersi le porte alle spalle, pensando o sperando che la scelta migliore sia quella ancora da compiere, che dietro l’angolo ci sia qualcosa di ancora più facile e vantaggioso e che pertanto non valga la pena di impegnarsi nel presente o chiudere con il passato perché tenere i piedi in una pluralità di staffe ci consentirà di essere liberi di poter partecipare alla grande abbuffata dello scintillante banchetto che tv e riviste patinate ci fanno scorrere vorticosamente davanti agli occhi, allontanandoci sempre di più dal mondo reale
Ma perché tutta questa elencazione non si riconduca a semplice nostalgismo, provo a ripartire dalle definizioni.
La prima domanda e’: oggi possiamo parlare di comunicazione? Quali sono gli elementi che devono essere presenti perché si possa parlare di comunicazione?
Il diagramma di Schramm li individuava molto chiaramente. Innanzitutto occorre che ci sia un emittente, quindi un messaggio, un codice, un destinatario una decodifica. Sembra elementare, ma come spesso accade ciò che è semplice non sempre è facile .
Nei vortici dell’attuale comunicazione (per ora definiamola cosi, ma poi vedremo che potrebbe essere qualcos’altro) l’emittente ad esempio non sempre è individuato. E questo potrebbe già essere un problema, perché sempre Mac Luhan asseriva che l’emittente è il messaggio.
Quindi lo stesso messaggio declamato dal Presidente della Repubblica dagli uffici del Quirinale ha diverso peso e diversa credibilità rispetto a quello annunciato da Nino Frassica dalla trattoria di Marcella la Zozzona.
Se entrambi annunciassero ad esempio l’entrata in guerra dell’Italia, uno sarebbe creduto e l’altro probabilmente no, anche se nel caos comunicativo imperante non è del tutto scontato immaginare a chi dei due verrebbe dato più credito. Il secondo elemento del diagramma di Schramm è il canale ed anche questa apparente banalità oggi non è più cosi scontata. Da un sistema relativamente semplice (TV, radio, carta stampata, telegrafo) siamo passati ad un contesto appunto multimediale in cui i canali sono cresciuti a dismisura. Mia nonna quando voleva conferire ad un fatto il crisma della verità incontrovertibile affermava: “l’hanno detto alla radio” e molti ricorderanno la beffa di Orson Welles quando nel 1938 annunciò alla radio un’invasione aliena scatenando una psicosi collettiva. Quindi il canale legittimava il messaggio.
Oggi nell’era delle fake news il canale è talmente accessibile o permeabile da non rappresentare alcuna garanzia in ordine ai contenuti che veicola. Arriviamo quindi ai codici. Anche qui potrei dilungarmi, ma pur limitandoci al codice più diffuso e cioè la lingua italiana, osserveremo il dilagante fenomeno dell’anafalbetismo funzionale.
Il concetto è piuttosto semplice. Mentre l’analfabetismo strutturale è ormai quasi scomparso e quindi la stragrande maggioranza della popolazione è in grado di leggere, è sempre più elevata la percentuale di coloro che sanno leggere, ma sostanzialmente non capiscono ciò che leggono, non sono in grado di estrarne i contenuti, di effettuare collegamenti con esperienze altre, dirette o mediate.
Questa rilevante quota di nostri connazionali (una delle stime più recenti la dimensiona al 47%) non è in grado di comprendere istruzioni scritte o di compilare correttamente un modulo. In altre parole non riescono a capire un articolo di giornale pur riuscendo a leggerne le parole, non riescono a compilare una domanda di lavoro o a interagire con strumenti e tecnologie digitali e comunicative e rimandano ogni informazione alla propria esperienza diretta. A tutto ciò si aggiunge il fattore demografico che vede il sensibile invecchiamento della nostra popolazione. Quindi anziani che sono cresciuti in un mondo lento ed accurato si trovano immersi in un vortice velocissimo di informazioni frammentarie che non riescono a cogliere o interpretare.
Approfondire questo aspetto nel modo che meriterebbe sarebbe del tutto impossibile in questa sede. Mi limiterò quindi ad un semplice esempio soffermandomi sui messaggi pubblicitari. Carosello si articolava su sketch della durata di 1 minuto e 45 secondi cui si aggiungeva il messaggio propriamente pubblicitario (la reclame) che durava 30 secondi. Una durata assolutamente incompatibile con il costo degli odierni spazi pubblicitari televisivi dal momento che il prezzo di uno spot in prima serata oggi può superare i 90 k.
Se immaginiamo un soggetto over 80 (circa il 7% della popolazione) che assiste ad uno spot pubblicitario odierno, nel quale in 30 secondi si susseguono decine di frame a velocità ipersonica, con collegamenti affidati spesso a messaggi al limite del subliminale e’ lecito supporre che difficilmente riuscirà ad agganciare il senso e la finalità di quei contenuti sparati stroboscopicamente. Arriviamo quindi alla componente finale del diagramma di Schramm che volutamente ho omesso di citare finora perché è l’ultimo fattore che, ove presente, ci consente di affermare che siamo effettivamente in presenza di un processo comunicativo: il feedback. In assenza di questo il processo è mutilato e non si può definire “comunicativo”, bensi informativo.
Questo e’ ciò che sta accadendo oggi: un flusso ininterrotto e velocissimo di INFORMAZIONI ad una via che vengono spacciate per COMUNICAZIONE bersagliano una platea vasta ed indifferenziata senza preoccuparsi di esiti e ritorni. Il feedback infatti è quasi del tutto assente o limitato alle forme più elementari: il pollice su ad indicare “mi piace” o pollice verso per dire “non mi piace” ne sono un chiaro esempio.
Personalmente ritengo che già sostituire il “mi piace/non mi piace” con “ho capito/non ho capito” sarebbe un bel passo avanti.