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Le multinazionali e l’uscita dalla Russia- scelta obbligata?

Fino a che punto è giusto che le multinazionali in Russia chiudano le loro attività? Le immagini che ci arrivano da Bucha suggeriscono una risposta obbligata. Il conflitto attuale ridefinisce la neutralità delle aziende nei territori di guerra

L’utilizzo delle sanzioni in affiancamento alle campagne militari non è una novità e nella guerra fra Russia e Ucraina sono state applicate con una forza senza precedenti. La novità è la “chiamata alle armi” delle multinazionali, chiamate a schierarsi non dalle Nazioni Unite né per ordine esplicito degli Stati Uniti o degli alleati, ma direttamente da Zelensky.

Il presidente ucraino è riuscito a generare un tale clamore e sdegno per l’invasione della Russia che le aziende si sono affrettate a decidere se rimanere in Russia o chiudere le attività, tenendo conto dei risvolti etici, di responsabilità sociale, di impatto sul conto economico e sull’immagine a livello globale.  L’onda d’urto non ha risparmiato le aziende che forniscono beni di prima necessità che si sono trovate in difficoltà a motivare la loro permanenza in Russia per motivi umanitari.

Molti fattori hanno spinto le aziende a limitare o a chiudere le loro attività in Russia.

Zelensky ha chiamato direttamente in causa le aziende accusandole di schieramento attivo a favore della Russia nel caso continuassero la loro attività.  Il 26 marzo 2022 il ministro degli esteri ucraino Kuleba ha dichiarato che il rifiuto della holding della famiglia Mulliez (che controlla Decathlon, Auchan e Leroy Merlin) di chiudere le attività in Russia equivale alla sponsorizzazione della guerra in Ucraina. Gli hashtag per boicottare le aziende hanno fatto il resto e qualche giorno dopo hanno capitolato Decathlon e Leroy Merlin (Auchan parzialmente) sotto i colpi di #boycottDecathlon, #boycottAuchan e #boycottLeroyMerlin. 

Gli occhi di tutto il mondo sono puntati sui comportamenti delle multinazionali e c’è chi effettua un monitoraggio costante delle loro decisioni.  Il Chief Executive Leadership Institute della Yale School of Management aggiorna una classifica delle multinazionali in base al loro livello di presenza in Russia, da quelle in fondo alla classifica perché continuano a lavorare in Russia senza alcuna variazione, a quelle che posticipano nuovi investimenti, riducono alcune attività fino ad arrivare alle aziende che hanno dichiarato la chiusura totale.  

Le piu grandi multinazionali sono abituate ad operare in zone di conflitto ma buona parte di queste hanno a che fare con guerre civili che hanno meno visibilità.  Per le multinazionali che operano nei paesi in cui è in atto una guerra civile è più normale rimanere neutrali e non schierarsi perché non c’è una chiara etichetta di invasore o invaso.  Nel caso dell’invasione della Russia, il buono e il cattivo sono chiaramente identificati e chi ha sede a Mosca è nel territorio dell’invasore.   

Nel caso delle guerre civili, le aziende sono viste addirittura in chiave positiva come agenti di pace, fondamentali per facilitare un ritorno alla normalità.  Lo sottolinea il World Economic Forum nel suo contributo “7 ways business can be agents for peace” (I 7 modi per far diventare le aziende agenti per la pace) con riferimento alla guerra civile in Somalia.  Al contrario, le aziende che non chiudono le loro attività in Russia sono viste in chiave totalmente negativa con contraccolpi a livello mondiale.

Anche i servizi finanziari vengono valutati in un modo se si parla di territori in guerra civile e in modo opposto se la guerra è fra due nazioni distinte.  In Somalia il ruolo di aziende come Western Union è considerato fondamentale per la sopravvivenza della popolazione: Il 40% della popolazione dipende dai trasferimenti di parenti all’estero. Di natura opposta quanto è accaduto dopo l’invasione dell’Ucraina:  dal 24 marzo 2022 la Western Union ha bloccato i trasferimenti in entrata e in uscita dalla Russia e dalla Bielorussia e ha permesso l’invio di denaro all’Ucraina ma non dalla Russia o dalla Bielorussia.

Il concetto di neutralità è ben definito negli statuti e nella missione delle organizzazioni umanitarie ed è ciò che permette loro di aiutare prigionieri, feriti e civili di tutti gli schieramenti con la tutela delle convenzioni internazionali.  Per le aziende il concetto di neutralità non è codificato se non in alcuni casi nel proprio codice etico aziendale e in questa guerra devono valutarlo in un territorio non direttamente colpito dalla guerra.

Quali sono le responsabilità di un’azienda nei confronti del pubblico che serve?  Dove si traccia la linea di demarcazione fra “servizi essenziali” e non?  Ci sono dei settori facilmente classificabili come essenziali, ad esempio le aziende che forniscono prodotti e servizi medicali, tutelate comunque dalla legislazione umanitaria internazionale che impedisce il blocco di queste forniture.  Ma come valutare l’effetto indiretto delle aziende che forniscono macchinari per l’allevamento o la coltivazione e il loro impatto sul benessere dei civili russi?  La conclusione è che fra le aziende chiaramente non essenziali e quelle decisamente essenziali ce ne sono tante che indirettamente contribuiscono a indebolire i civili russi e a tutti gli effetti partecipano alla guerra.

Tutte queste considerazioni appaiono superflue specialmente alla luce delle immagini di fosse comuni e di civili abbandonati per strada che ci arrivano da Bucha. Sono in arrivo nuove espulsioni di diplomatici russi dalle ambasciate di vari paesi e l’ennesima richiesta di inasprimento delle sanzioni.  E le aziende? Cosa aspettano a chiudere definitivamente? In questo modo contribuirebbero a moltiplicare l’effetto delle sanzioni per accelerare la caduta di Putin e riportare l’Ucraina alla pace. 

Il ragionamento è lineare e più va avanti la guerra, più le aziende si sentiranno in dovere di chiudere con la Russia.  In ogni caso il gioco semplicemente non varrà più la candela sotto il peso di boicottaggi crescenti che ne mineranno il fatturato nel resto del mondo.   

Ma se in questo momento le considerazioni umanitarie devono prevalere su qualsiasi elemento di business, le aziende devono guardare anche al medio e lungo termine. Insieme alla speranza che la guerra finisca in fretta, le aziende si domandano quale potrà essere il loro ruolo nell’era post-Putin o almeno post-guerra e a margine delle scelte immediate dettate dall’onda emotiva, molte di esse valutano se convenga o meno uscire del tutto in questo momento. Oltretutto, molte aziende che non hanno chiuso in Russia sono pronte ad accaparrarsi il mercato di quelle cha la lasciano. 

La guerra fra Russia e Ucraina ha cambiato il ruolo delle aziende in territori di guerra. Esse diventano partecipanti attivi alla guerra, potenziando a tutti gli effetti il logorio delle sanzioni. Questo avrà un impatto sulla definizione delle mission e delle strategie aziendali perché la considerazione che un’azienda diventi suo malgrado parte attiva in una guerra e che l’esito della guerra dipenda anche dal suo operato può essere un freno all’entrata in mercati a rischio indipendentemente dai potenziali ritorni economici. Cambia anche la valutazione economica degli investimenti, perché se fino ad oggi lo scenario più pessimista fosse quello di una sospensione temporanea delle attività, da oggi non si può più escludere l’opzione “total exit”, causata anche solo da un hashtag di boicottaggio.  Le aziende dovranno considerare il rischio paese e dovranno mettere in conto la disponibilità a fare le valigie in quattro e quattr’otto, come una tassa da pagare per la pace e la stabilità degli scambi commerciali nel mondo.  D’altronde con questo conflitto la guerra ha già assunto una dimensione mondiale e polarizzata anche per i paesi che non la combattono militarmente.

Ma investimento e disinvestimento in settori con strutture, logistica e indotto importanti non si mettono in piedi da un giorno all’altro. Uscire definitivamente dalla Russia vuol dire avere molte più difficoltà a rientrare se cambia il governo e si imbocca un percorso più democratico. E se si prevede che la guerra prima o poi finirà, allora perché non far pagare a chi resta una “Stability tax” o “Peace tax” da devolvere alle organizzazioni umanitarie invece di disperdere il valore in spese di trasloco? Molte aziende che hanno deciso di restare in Russia lo hanno già fatto, donando alla causa ucraina e alcune aziende si sentirebbero meno obbligate ad offrire aiuti umanitari se dovessero accollarsi le spese di “total exit” dalla Russia.

Le aziende che motivano la loro permanenza in Russia in base agli aspetti umanitari del loro business e mantengono una posizione di neutralità verso i civili, riusciranno a mantenere la rotta o dovranno adattarsi ad un nuovo mondo in cui è sacrosanto schierarsi dalla parte di chi combatte per la libertà? Dovranno contribuire al sacrificio dei civili in capo all’invasore per farlo capitolare, farla finita con la guerra e ripristinare la pace? E nelle guerre che non potranno trarre vantaggio dal potere comunicativo di un Zelensky di turno, come si comporteranno i fautori del “total exit” odierno?

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