
Gli esseri umani sono naturalmente curiosi verso il mondo che li circonda, apprendono attraverso l’esperienza, e consumano in maniera preferenziale quelle esperienze che più gratificano la propria curiosità, in un virtuoso ciclo a retroazione. Più sarà il piacere che un alunno ricaverà dall’apprendere nuove cose, più sarà portato a ricercare esperienze simili, e ad apprendere ancora. Meno l’esperienza di apprendimento genererà gratificazione, e più l’alunno tenderà ad evitarla in futuro.
Chiunque abbia dei figli in età scolare si accorge che la maggior parte di essi sono generalmente poco interessati, poco coinvolti, generalmente annoiati. Non che in passato la scuola fosse composta da legioni di alunni ansiosi di andare in classe, farsi interrogare o fare i compiti, tutt’altro. Ma oggi si ha la sensazione che il livello di distacco vada oltre una semplice dicotomia tra la libertà assoluta vissuta in età prescolare, e il sistema di regole e valutazioni che progressivamente limita tale libertà durante il corso della formazione scolastica, sostituendolo con una struttura di pensiero e d’azione da adulti.
Una risposta generica al disinteresse degli alunni può richiamare come cause il progressivo impoverimento culturale della società, nonché la progressiva svalutazione della cultura come mezzo di emancipazione ed ascesa sociale. Nel nostro paese di vecchi, i quali ancora governano la nostra vita sociale ed economica avendo in testa la facilità di inserimento nel mondo del lavoro degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, il conseguimento di un titolo di istruzione superiore è ampiamente svalutato. Basti pensare che nelle ultime legislature si sono avvicendati in posti da ministro individui sprovvisti sia di un’istruzione universitaria, che di una credibile esperienza lavorativa che la surrogasse. Con questi esempi davanti agli occhi al giovane generico medio viene facile pensare che l’istruzione non è più un discrimine per salire in alto loco.
Ma accanto a ciò, bisogna probabilmente porsi delle domande di tipo diverso. Il nostro sistema scolastico, specie di istruzione media e media superiore, ha un ventaglio di programmi che servano a formare cittadini del mondo moderno? Abbiamo davvero ancora bisogno di studiare materie che la maggior parte degli alunni dimenticherà il giorno dopo aver lasciato l’edificio scolastico, e che non gli saranno di alcun aiuto nella vita? Le materie che servono veramente alla formazione di una classe dirigente e di una comunità civile moderna sono ancora quelle individuate dalla riforma Gentile, straordinaria opera culturale, ma espressione di un mondo di un secolo fa?
Accanto alle domande di ordine generale, vanno poste anche alcune domande di tipo diverso, connesse a logiche che modernamente definiremmo di design thinking. L’esperienza scolastica complessiva dell’alunno moderno, che costruisce la propria vita in un ambiente esperienziale evoluto e digitale, è ancora sufficiente a catturarne l’attenzione, o va evoluta in una direzione diversa? Quali strumenti posson essere integrati con successo nel percorso scolastico ed universitario, al fine di preparare gli allievi alla via e al lavoro stimolandone la curiosità?
Nella grande processo in corso di digitalizzazione della società, ci stiamo forse dimenticando della scuola, il luogo dove i nostri ragazzi passano la maggior parte del tempo e dove le loro esperienze giornaliere si costruiscono. Ha ancora un senso insegnare a tradurre da e in lingue diverse a ragazzi che hanno a disposizione ogni sorta di traduttori online? Ha ancora un senso insegnare un certo tipo di matematica nozionistica, dove non si mostra in primo luogo l’applicazione pratica delle regole e delle funzioni che si chiede di imparare, ma si riduce l’intera esperienza del calcolo all’ottenimento di un numero? Ha ancora senso insegnare la storia come un’infinita serie di nomi, di dinastie, di battaglie e di date, una modalità che ammazzerebbe di noia un bonzo?
Forse dobbiamo ripensare l’intera esperienza della scuola, e trasformarla in un posto dove non si insegnano più nozioni superate dell’avanzamento tecnologico, ma elementi di fatto, immediatamente trasformabili in occasioni di apprendimento ingaggianti.
Tra i molti tentativi tecnologici che vanno in questa direzione, notevole è quello portato avanti dalla startup Labster, che ha recentemente chiuso un round di fundraising di 47 milioni di dollari per costruire un cosiddetto eduverse. Il concetto fondante di Labster è quello di costruire ambienti virtuali realistici per la simulazione di vari scenari di apprendimento, in particolare nel campo delle scienze biologiche e chimico-fisiche. Partiti da un approccio simile a quello dei simulatori di volo, ne sfruttano le logiche per fornire ai discenti esperienze realistiche.
Nel catalogo attuale della startup figurano oltre 250 simulazioni, che coprano un’ampia varietà di situazioni. Il vantaggio principale dello strumento è quello di essere ampiamente scalabile in termini di piattaforma e di modalità di fruizione. Labster funziona infatti allo stesso modo sui più recenti tablet, così come su telefoni cellulari con caratteristiche molto basiche. Uno degli aspetti della missione di Labster è infatti quello di facilitare la diffusione della conoscenza scientifica e dei moderni strumenti di apprendimento anche in paesi meno sviluppati da un punto di vista tecnologico.
Il finanziamento ottenuto è certamente di grande rilievo, e consentirà a Labster da un lato di espandere il proprio catalogo corsi; dall’altro di migliorare in maniera sostanziale la robustezza della piattaforma ed il realismo degli scenari simulati. Un passo consistente verso l’apprendimento scolastico ed universitario coerente con i tempi che viviamo.