
Tucidide, storico e militare ateniese, coniò questa frase in riferimento all’assedio dell’isola di Milo da parte degli Ateniesi e la sua successiva conquista. Tutti i maschi di Milo furono passati per le armi ed i restanti superstiti, donne e bambini, furono ridotti in schiavitù. La colpa di Milo fu quella di non accettare la richiesta, senza condizioni, di Atene di schierarsi dalla sua parte nel conflitto che la vedeva contrapposta a Sparta.
Il concetto di Stato egemone e la sua evoluzione per diventare tale, si può spiegare proprio guardando la guerra del Peloponneso che vide, prima la crescita delle due ”polis” dominanti, crescita ottenuta mediante la sottomissione delle città più deboli, e successivamente la guerra che scaturì inevitabilmente quando le due aree di influenza di Sparta e di Atene vennero a contatto.
E questo è quello che è successo nei secoli che ci hanno preceduto. Nascita e morte di imperi che di volta in volta diventavano egemoni e regolavano la vita politica ed economica di tutto ciò che ricadesse sotto la loro sfera di influenza. L’Impero Romano, quello Mongolo, Ottomano, Spagnolo, Portoghese, Francese e tra gli ultimi quello Inglese e degli Stati Uniti sono gli esempi più macroscopici di come lo scettro di Paese egemone sia passato di mano in mano col passare dei secoli. E la guerra è stata ciò che univa i vari passaggi dell’evoluzione storica dell’umanità e degli equilibri mondiali.
Il “realismo” politico si è imposto come tra le teorie dominanti per spiegare i rapporti di forza tra Paesi. Oltre al già citato Tucidide, a questa corrente di pensiero si annoverano Macchiavelli, Hobbes, Weber, Aron. Naturalmente con una evoluzione del pensiero originario che aveva i suoi cardini in una concezione dello Stato come una entità egocentrica, il cui scopo principale è quello di difendere i propri interessi e che si muove in un mondo anarchico e pericoloso ed è perciò necessario mobilitare le risorse economiche per accrescere la propria forza militare.
Dopo la Seconda guerra mondiale abbiamo assistito a straordinari cambiamenti che hanno portato gli Stati Uniti ad essere l’unica potenza egemone. L’Unione Sovietica si è sfaldata nel 1989. La Cina, dopo una tumultuosa crescita economica e militare si sta inserendo a pieno titolo tra gli Stati che aspirano a essere egemoni.
Gli altri Stati sono vassalli. E soffrono quel che è necessario.
Gli Stati Uniti hanno sempre esercitato la loro potenza dettando l’agenda di quando e come attivare la leva militare per “risolvere” questioni internazionali che in qualche modo minacciavano i suoi interessi strategici. Oppure semplicemente imponendo nuove regole in campo economico o commerciale, in maniera unilaterale, che però trovavano applicazione in tutto il resto del pianeta. Un esempio in tal senso è la modifica del trattato di Bretton Woods del 1944 stipulato da oltre 44 Paesi e che stabiliva il nuovo ordine mondiale economico in cui il dollaro sarebbe stato la moneta di riferimento ancorato alle riserve auree. Come noto a seguito delle spese esorbitanti relative alla guerra del Vietnam, Nixon decise unilateralmente nel 1971 di abolire di fatto Bretton Woods e di sganciare il dollaro dall’oro, potendo dunque, da quel momento, stampare moneta liberamente, e far fronte alle necessità nazionali; nacque così la “FIAT money”.

Il motivo per cui gli Stati Uniti possono far navigare la poderosa Settima flotta del comando Navale dell’Indo-Pacifico nelle acque prospicenti Shanghai, ma la Cina non può fare altrettanto nelle acque del golfo del Messico di fronte a New Orleans, è la plastica rappresentazione della proiezione di potenza di uno stato egemone su uno stato vassallo.

È dunque necessario utilizzare questa lente quando si analizzano gli accadimenti mondiali, le tensioni ed i conflitti che di volta in volta si generano. Accettare che la forza militare sia la regolatrice delle dispute fra Stati è moralmente ripugnante per ciascun essere umano (o almeno così dovrebbe essere), ed in molti trattati Internazionali e Costituzioni (lo è sancito nella nostra all’articolo 11) è scritto a chiare lettere. Ma i trattati sono fatti per essere ignorati o disattesi quando si tratta di interessi nazionali, specie se afferenti a quelli delle nazioni egemoni. Noi abbiamo partecipato alla guerra del Golfo del 1991 senza essere mai entrati ufficialmente in guerra. Così come abbiamo bombardato la ex Jugoslavia, o siamo intervenuti in Libia con la nostra aviazione contribuendo fattivamente a detronizzare Gheddafi. Insomma, gli occhiali che bisogna indossare per leggere questi accadimenti sono molto simili a quelli che i Pubblici Ministeri, che combattono le mafie, devono utilizzare per interpretare le mosse dei clan malavitosi: le guerre per accaparrarsi le “piazze” di spaccio, i segnali che le “famiglie” si scambiano, gli attentati e le uccisioni che si verificano sul territorio assomigliano molto agli accadimenti internazionali di oggi. Certe dichiarazioni che oggi vengono riportate nei nostri telegiornali fatte da diplomatici, ministri, o capi di stato sembrano riecheggiare quelle di alcuni boss mafiosi.
Ma il Risiko mondiale sta cambiando. E ciò è molto pericoloso.
Quando la nazione egemone si indebolisce, o viene percepita come debole (non importa se a torto o a ragione) allora può succedere che vi siano potenze che aspirando a ricoprire un ruolo diverso da quello di vassallo, cerchino di approfittarne.
Gli Stati Uniti in questi ultimi anni stanno vivendo un declino economico che è mascherato dalla ancora indiscussa potenza del dollaro. Recentemente il disimpegno (seppure annunciato da tempo) dall’Afghanistan è stato condotto in maniera disastrosa; nonostante fosse stato concordato a Doha con gli stessi Talebani, ma senza aver informato gli alleati della Nato con cui quelle operazioni erano state condotte. E’ sembrata una capitolazione non consona agli Stati Uniti ed una disfatta in piena regola. L’elezione di Biden sembra aver aumentato le incertezze rispetto alla precedente amministrazione che pure aveva contribuito ad alimentare dubbi sulla capacità di esercitare il ruolo di potenza egemone in modo saggio. Gli stessi alleati storici cominciano a temere di non poter contare sugli Stati Uniti.
Emblematica la posizione di Israele.
Con gli accordi “Abramo” (sotto l’egida americana), Israele ha stretto relazioni diplomatiche con paesi del golfo che fino a poco tempo fa erano considerati storici nemici: gli Emirati Arabi Uniti. Quindi dopo Egitto e Giordania la cinta di paesi arabi che stanno avvicinandosi ad Israele è in aumento. La posizione dell’Arabia Saudita negli ultimi mesi è risultata più possibilista ad un avvicinamento alle posizioni di Gerusalemme. Non si può non notare che tutti questi paesi hanno per ragioni diverse un comune nemico: l’Iran. I paesi arabi perché sunniti, in contrapposizione allo sciita Iran e Israele perché sente la sua esistenza stessa minacciata da una potenza che in breve tempo potrebbe dotarsi di capacità nucleare e dirigerla verso Tel Aviv, come più volte promesso e giurato. Una situazione esplosiva. Gli accordi sul nucleare iraniano che si stanno tenendo in questi giorni a Vienna vedono come attori principali oltre all’Iran anche Stati Uniti e Russia. L’Iran ha anche un altro amico lontano: la Cina. La stessa Cina che qualche giorno fa ha declinato l’invito dell’Unione Europea di schierarsi contro l’Invasione russa in Ucraina.

Ebbene in Israele si nutrono molti dubbi che l’accordo che si chiuderà a Vienna possa contenere misure favorevoli per sé stesso, e questa medesima valutazione sembra condivisa dagli stati del golfo ora alleati di Gerusalemme. Israele, dunque, si prepara a muoversi in autonomia per difendersi e questa attività diplomatica nel golfo, inclusa quella recente con la Russia, sembra proprio andare in questo senso: garantirsi la possibilità di colpire l’Iran senza scatenare reazioni degli Stati limitrofi e della Russia stessa. Brutto segnale per lo stato egemone che dovrebbe proteggere i propri vassalli da una concreta minaccia. Ma il piano americano sull’Iran, per interessi propri, ha altri obiettivi.
E dunque gli altri possono soffrire il necessario.
Anche l’Europa (che pure dal punto di vista identitario è ancora lungi dal rappresentare una realtà univoca) può soffrire il necessario.

Quali sono i suoi interessi primari? Sono gli stessi degli Stati Uniti? Non sembrerebbe proprio guardando gli ultimi accadimenti. Sembra piuttosto che a fronte di un’agenda americana che vede con favore il proseguimento del conflitto, utile a far fallire il tentativo russo di ristabilire la sua bolla egemonica ad est, l’Europa avrebbe tutto l’interesse a ristabilire al più presto una condizione di pace che possa normalizzare anche le forniture energetiche particolarmente importanti e necessarie. Al momento i Leader politici sono schierati su posizioni che non sempre sembrano conformi al pensiero dei cittadini, che per ora è sommerso dal rumore preponderante che si genera intorno alla condanna di Putin. Sarà forse più evidente in futuro quando l’inflazione comincerà a far sentire i suoi morsi, la crisi energetica porterà i prezzi sempre più in alto, la crescita diventerà di nuovo una decrescita non felice, fatta eccezione per il settore delle armi.

In questo scenario, dunque sembra che gli Stati Uniti stiano perdendo il controllo sull’ordine mondiale, e si stia aprendo una stagione di anarchia globale dove il posizionamento di nuovi soggetti sullo scacchiere porterà a nuova instabilità, incertezza e purtroppo conflitti.
E, come sempre, i deboli soffriranno il necessario.