CITTADINI & UTENTI

Analizziamo la guerra in Ucraina, dalle azioni di influenza alle misure attive

Le liste di Riotta e Travaglio? L’ambasciatore russo va in Procura? Putin già lo sapeva

Dopo il primo sgomento provocato dalle immagini delle chilometriche file di carri armati russi ammassati al confine con l’Ucraina, con tanto di Z (Zelensky, “ex comico”“leader di un governo di omosessuali e nazisti” ?) verniciata sulle blindature, il nostro giornalismo – quello a casa ben diverso da quello inviato al fronte – ha iniziato, in accordo col procedere dell’invasione, la consueta battaglia non rifuggendo dai soliti distinguo, elucubrazioni e sofismi egotici non solo nei talk show, ma sulla carta stampata. Dando il la al ribollire dei social.

In questa “voglia di dire una cosa diversa” qualcosa di nuovo – anzi in verità di vecchio – è stata detta seppur di sfuggita: le “azioni di influenza” e le “misure attive”. Strumenti classici dei Servizi speciali russi, eredi del KGB, riapparsi sia in Ucraina che in Italia e in Europa. Nessuno o quasi, però, ha colto l’occasione per avviare una riflessione seria e approfondita su questa minaccia occulta quanto ibrida. Nemmeno per contrapporla, come in passato, alla “guerra culturale” occidentale condotta dalla “Cultural Influence” contro l’URSS. Una guerra, in verità inventata da Bismarck, ma ampiamente sviluppata e praticata con grande successo dal 1945 ad oggi soprattutto dagli USA tanto da determinare la nostra cultura e – secondo alcuni analisti del tempo – la stessa caduta dell’Impero sovietico, travolto dall’impeto delle “Rivoluzioni del 1989”

Probabilmente per “distrazione”, voluta o inconscia, a oggi, non ci si è fermati ad approfondire questa possibile “ri-scoperta”preferendo soffermarsi, guidati dal nuovo meme della “guerra sul campo ormai sempre accompagnata da quella sui media”, sulla “ Guerra dell’informazione” o della “propaganda”, alla caccia del vero e del falso in onore del debunking.

Eppure un’ eccezione c’è stata, anche se purtroppo finita – come si direbbe a Roma – “in caciara”, consumata dalla fiammata degli egotismi dei protagonisti. Si tratta del recente ed emblematico incendio polemico tra giornalisti avviato da Gianni Riotta il 3 marzo con la pubblicazione su “la Repubblica” dal suo articolo “Guerra in Ucraina. Destra, sinistra e no Green Pass: identikit dei putiniani d’Italia”. Il “pezzo” ha fatto subito insorgere molti giornalisti, in primis Travaglio e Facci, che hanno parlato di “lista nera”“lista di proscrizione”; “invenzione”, errori nella trascrizione dei nomi degli autori, almeno di un italiano, e nell’attribuzione di professioni accademiche e di committenza universitaria per tutti; inserimenti arbitrari di persone, Cicero pro domo sua, nelle due categorie analizzate dallo studio i “Russlandversteher” e  neo-eurasianisti”. Anzi, qualcuno ha persino rilevato – sbagliando –  che il termine “Putinversteher”, focalizzante su Putin, fosse un’invenzione dello stesso Riotta incline allo sfoggio di lingue estere. Ovviamente altri giornalisti hanno levato i loro scudi a difesa dell’autore, ricorrendo per lo più alle stesse “attenzioni ad hominem” . 

Una rapida analisi sull’oggetto del contendere ci dà la possibilità di ragionare contemporaneamente sia sullo stato del nostro giornalismo sia di un aspetto peculiare della Dezinformatsiya russa, molto caro a Lenin, quello dei “compagni di viaggio” che sono insiti nella struttura delle società liberali e che possono essere attivati automaticamente da quella che allora lui chiamava la “stampa” senza nemmeno spendere soldi per “agenti di influenza” e loro “agenti curatori” o “di contatto” .

Iniziamo dal “fatto”, ossia l’articolo “relais” e quelli di risposta, entrambi “eventi irradianti” perché divenuti nel confronto “casse di risonanza”. Riotta, ricorrendo a una tecnica classica del giornalismo, l’ ”attualizzazione delle notizie”, ha proposto ai suoi lettori, con qualche personale aggiunta e censura di nomi, una rivisitazione di uno studio della Columbia University. In effetti, come gli è stato rimproverato, era solo stato pubblicato da una casa editrice ad essa collegata, la tedesca Ibidem. Nello “ ‘studio’ (che studio non è)” – altra accusa degli avversari – “in verità un documento di ricerca che fa parte di una raccolta di saggi (totale di oltre 400 pagine)” compare anche un contributo italiano, edito nel settembre del 2021 dall’Istituto Gino Germani di Scienze sociali e studi strategici, realizzato da Massimiliano Di Pasquale e da Sergio Germani per analizzare “l’influenza russa sulla cultura, sul mondo accademico e sui Think tank italiani”. Quindi di “guerra culturale”, come, proprio partendo da questo “documento di ricerca”, si poteva e doveva parlare. 

Purtroppo, i lettori e i telespettatori sono stai privati di questo approfondimento; tutto si è focalizzato, a parte le polemiche e la correzione degli errori, sui temi classici della “libertà di stampa” e del “rispetto della verità” ricompresi nel “diritto di cronaca”, ossia, come si dice oggi, la “narrazione di fatti”, sancita nell’art. 21 della CostituzioneUn gioco assai facile in un Paese dove ormai tutti, semplici cittadini, personalità e giornalisti, tra cui in primis i protagonisti della vicenda, esercitano e rivendicano il proprio diritto a dire e scrivere quello che pensano fidando su un’immunità giuridica, ancorché culturale, ormai di fatto totale. Pertanto il dibattito si è polarizzato, impoverendosi, sull’inserimento e la soppressione di nomi in un elenco da parte di un giornalista. Attività che, proprio sulla base dell’esercizio delle proprie opinioni, sarebbe ed è corretta per ogni giornalista come del resto la critica alla “selezione”  proposta. Certo, qualcuno potrebbe invocare la “verifica delle fonti”, ancorché pratica oggi piuttosto lasca, ma Riotta, inserendo o togliendo persone, ha svolto correttamente la sua professione se queste hanno realmente espresso o assunto posizioni “Putinversteher”.

L’utilizzo di termini nuovi non dovrebbe scandalizzare il giornalismo, come la politica, perché notoriamente entrambi “inventano” sostantivi, verbi e aggettivi per sintetizzare e meglio imprimere nella memoria dei propri recettori, fatti e o persone, raggruppandoli in “insiemi” grazie a vere o presunte proprietà accomunanti, scelte, tendenze politiche o sociali e persino sessuali. 

Per sapere cosa rappresenti e da dove derivi la categoria Putinversteher” dobbiamo andare alla fonte, ossia allo studio dell’Istituto Gino Germani che in una nota alla pagina 3 chiarisce che “Russiaversteher” in Germania“Letteralmente significa ‘colui che comprende la Russia’, o più colloquialmente, ‘simpatizzante’, – termine – usato nel dibattito pubblico tedesco per indicare esperti e politici ‘pro-Cremlino’ “. Aggiungendo nel testo che questi “hanno una posizione filorussa moderata e pragmatica, spesso basata su considerazioni di realpolitik”. Insomma, aggiungiamo noi, chi direttamente o indirettamente asseconda o “comprende”, nel senso di capire e o giustificare, in qualsiasi modo e misura, le ragioni di Putin e della Russia, esponendole o narrandole, argomentandole e sostenendole pubblicamente al fine di legittimarne le scelte per favorire diversi gradi di adesione. I “neo-eurasianisti”, invece, sono sempre gli autori a dircelo,  rappresentano coloro che: “hanno opinioni radicali pro-Mosca e anti-occidentali. Sono spesso ammiratori di Aleksander Dugin…..Percepiscono la Russia di Putin come un modello sociale e politico, nonché come un potenziale alleato contro le  élite della UE e ‘globaliste’ che avrebbero impoverito l’Italia privandola della sua sovranità … anti-NATO e anti-UE chiedono un’alleanza strategica tra Europa e Russia”

Ovviamente si può essere d’accordo o meno con le definizioni e i conseguenti raggruppamenti proposti dai ricercatori italiani sulla base delle classiche tecniche dell’ “analisi del contenuto”  su una determinata documentazione mediale. Ma stiamo parlando di una metodologia sociologica validata e utilizzata in tutto il mondo anche dai pubblicitari per rilevare e poi catalogare le caratteristiche di specifici contenuti espressi in forma scritta o multimediale. Strumento spesso applicato alle dichiarazioni o agli scritti di politici e personaggi in vista, non solo per riscontrane e analizzarne l’immagine e i contenuti, ma anche le direzioni “contro” o “a favore”, ancorché nascosti “tra le righe” dalla “fonte”. Ugualmente applicata nella “cultivation analysis”, come punto di partenza  per gli studi sugli effetti dei media. 

Stupirà – forse – sapere che proprio anche su queste diatribe giornalistiche contava Lenin quando dettò con estrema chiarezza, essendo stato lui il primo a praticarle con successo, le leggi della Dezinformatsiya, sottolineando come le Democrazie, per loro stessa natura e struttura, offrano il terreno più fertile per trovare alleati eterogenei, anche casuali, “compagni di viaggio”, consapevoli o inconsapevoli, grazie alla “stampa” e alla “Libertà di stampa”. Leggi operative, chiaramente dettate da Lenin in base alle sue grandi capacità di analisi sociale e al suo altrettanto grande realismo rivoluzionario. Di qui i suoi celebri “Dite loro cosa vogliono sentire dire” e il “Diamogli la corda a cui vogliono impiccarsi”. Quest’ultimo, un regalo diretto, per sua stessa dichiarazione, anche agli imprenditori allora, come oggi, attratti dalle opportunità che pensavano si aprissero nell’URSS dopo la “Rivoluzione d’ottobre”

Per Lenin, “l’Europa occidentale e l’America”, con i loro “ambienti colti” sono pieni di “utili idioti”, ossia “giornalisti, intellettuali e viaggiatori incuriositi dall’URSS”, più ecumenicamente, definiti anche “compagni di viaggio”. Considerati “sordomuti”, perché “i cosiddetti elementi culturali dell’Europa occidentale e degli USA sono incapaci di comprendere lo stato attuale dei fatti [internazionali] e il reale equilibrio delle forze, perciò devono essere considerati come sordomuti e trattati di conseguenza”. Pertanto, i “relais” e le “casse di risonanza” sono già presenti nella società e si attiveranno automaticamente in virtù proprio della libertà d’espressione, di stampa e dall’attuale voglia di apparire in TV, in tutti coloro che opinion leader, giornalisti, politici, analisti, ospiti etc e gruppi di opinione o movimenti antagonisti sono per svariate proprie ragioni, più o meno, contro i governi in carica. Un fenomeno sociale definito per l’esposizione mediale dei virologi da due altri analisti italiani, Paolo Nucci e  Massimo Scaglioni, in un loro studio pubblicato proprio in questi gironi, “Iatrodemia”, ossia una vera e propria “pericolosa patologia sociale” tipica dell’epoca del self-branding e degli influencer che spinge a invadere gli schermi. 

Un humus sempre fertile e pronto in automatico a offrire il fianco e o il supporto a certe idee di fatto utili alla “destabilizzazione” e alle “azioni di influenza”. Tanto che un esperto francese di Dezinformatsiya scrisse “ Nessuna legge occidentale vieta di scardinare la società in cui si vive. Basta giocare il rosso e il nero, il pari e il dispari”. Questo è il “paradosso” dell’informazione nelle Democrazie. Del resto furono proprio gli strumenti della cara e vecchia “analisi del contenuto”, esercitata sulle statistiche, i giornali, i film, la musica e le trasmissioni radiofoniche e televisive a consentire a Comunisti e Capitalisti di lottare tra di loro per il dominio dei “cuori e delle menti” dei Pesi-bersaglio. Molto, molto prima dell’avvento di internet con i suoi “filtraggi”, “bolle”, “algoritmi” etc…

Psicologi e sociologi, americani ed europei, già nel secolo scorso, prima che il termine “ingegneria sociale” fosse coniato, sapevano perfettamente che le opinioni per giudicare un evento, vero o falso che sia, già esistevano ed esistono “dormienti”  in noi come “pre-giudizi” o “pre-concetti”, rappresentando le linee guida dei nostri giudizi. Come pure sapevano che salvo casi estremamente rari – soprattutto oggi – di “cristallizzazione” del pensiero, le opinioni  coesistono in noi assieme ad altre anche di segno opposto. Pertanto siamo naturalmente “disposti”, se opportunamente sollecitati, a fare delle “concessioni” o “aggiustamenti” verso addirittura opinioni contrarie. Una coesistenza che si ritrova identica anche nei gruppi sociali, piccoli o grandi che siano. Un gioco, diciamo, “opinionale” e di “effetti sociali” prevedibili che da un lato consente e assicura lo sviluppo della Democrazia e dall’altro offre un fertile terreno alla disinformazione e alla manipolazione anche a costo zero.  

ISTANBUL, TURKIYE – MARCH 29: Turkish Foreign Minister Mevlut Cavusoglu (C) gives a thank you speech during the peace talks between delegations from Russia and Ukraine at Dolmabahce Presidential Office in Istanbul, Turkiye on March 29, 2022. Turkish Presidency Spokesperson Ibrahim Kalin (C-L) and Turkish Deputy Foreign Minister Sedat Onal (C-R) also attended the meeting. (Photo by Cem Ozdel/Anadolu Agency via Getty Images)

Forse, proprio fidando in questi meccanismi automatici di effetti sociali, l’Ambasciatore russo, Sergei Razov, ha voluto convocare la stampa italiana all’uscita della Procura di Roma, dopo aver depositato una querela contro “La Stampa” per aver riportato in un articolo l’ipotesi anche di un cambio violento di leadership al Cremlino. In base alle stesse leggi sociali, Putin aveva arringato pochi giorni prima i moscoviti allo stadio Luzhniki stracolmo di giovani, anche militari, acclamanti e sbandieranti; trasmettendo l’evento, con qualche intoppo, in mondo visione. Sicuri entrambi che tra gli occidentali qualcuno ne avrebbe moltiplicato l’effetto, parlandone in termini sia negativi che positivi. Entrambe direzioni utili a dividere all’estero e a compattare all’interno. 

Da qui e sempre rimanendo nell’ambito delle “azioni di influenza”, si potrebbe aprire un’ altra analisi, quella sulla “Cultural Influence” americana che sembra aver fatto breccia anche su Putin e i suoi rappresentanti esteri che di fatto nelle due occasioni citate hanno scelto i canoni massmediologici imposti dall’Occidente. Putin star hollywoodiana in un’oceanica kermesse di tipo sportivo o musicale, vestito griffato italiano, e Razov, funzionario statale diligentemente in blu scuro, impegnato a ricalcare il copione proposto in molti film e telefilm americani, tipo “Law & Order: Special Victims Unit”, dove gli avvocati per avvalorare le loro tesi e difendere i loro clienti si fanno intervistare dai giornalisti da loro appositamente convocati proprio sulle gradinate dei tribunali.

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