CITTADINI & UTENTI

Lavoro ubiquo o torni e capimastri?

Tra smartworking e ritorno in ufficio servono nuove regole che ridefiniscano i rapporti tra le diverse parti sociali e gli individui

Sono passati poco più di due anni da quando scrissi il profetico articolo Il lavoro è smart, ma l’Italia è stupida, e l’Europa pure. Era l’11 marzo 2020, e la pandemia cominciava appena a diffondersi dalla Lombardia al resto dell’Italia. 

Era ancora un tempo in cui conservavamo le illusioni degli inesperti, di coloro che non avevano ancora vissuto un evento storico che avrebbe condizionato le nostre vite per moltissimo tempo. Dapprima pensavamo che fosse una cosa limitata alla Cina; poi ci siamo illusi che sarebbe stata contenuta alle prime zone del milanese e del bergamasco, i cui nomi sarebbero diventati tristemente famosi; infine abbiamo pensato che tutto sarebbe scomparso con l’estate. Due anni dopo, la situazione è sotto controllo grazie ai vaccini, ma ancora giriamo con le mascherine all’aperto.

Anche con le illusioni di quel tempo, l’articolo puntava fortemente il dito verso una realtà indiscutibile: la piena sostituibilità, per i knowledge workers, del lavoro in qualunque posto a quello svolto in ufficio. Si concludeva con le parole: Con le crisi si selezionano le cose veramente importanti: si gettano via le vecchie abitudini e i fronzoli inutili e ci si concentra sull’essenziale. Ci auguriamo fortissimamente di vedere emergere dai giorni del coronavirus un’Italia più intelligente e competitiva su ciò che conta davvero.

L’editoriale di Umberto Rapetto fotografa una realtà che appare ormai dicotomica tra un vecchio modo di pensare, fordista, dirigista, ottocentesco, basato sugli schemi organizzativi delle prime fabbriche e sul concetto di lavoratore come entità da controllare, ed uno moderno, basato sulla flessibilità, la responsabilità, l’autorganizzazione, il bilancio tra vita individuale e lavoro.

Il vecchio mondo non vuole morire, né trasformarsi. Da un certo punto di vista, è pienamente comprensibile. Non tutti – anzi, quasi nessuno – amano uscire dalla propria zona di comfort ed esplorare nuove vie e modalità di vita. I meno propensi sono quelli che nella vecchia modalità di lavoro hanno costruito carriere e posizioni di potere non sulla competenza, ma sul saper fare politica, assumersi meriti altrui, e sviolinare a più non posso verso i livelli superiori dell’organizzazione. Se non hai talento, voglia di lavorare, o idealmente entrambi, meglio che tu sappia sorridere e dire sempre di sì.

L’assunzione di meriti altrui e il violinismo sono tuttavia possibili unicamente in contesti dove il contributo fornito all’organizzazione non sia oggettivamente evidente e misurabile. Non sulla base del tempo passato in ufficio, ma sulla base dei risultati prodotti. L’efficacia ed il senso di un middle manager o di un dirigente che abbia come unica capacità quella di raccogliere e presentare come propri i risultati prodotti da altri, svanisce di fronte ai moderni strumenti collaborativi come Microsoft Teams, dove è permanentemente registrato e misurabile il contributo di ognuno. I colleghi che svaniscono in un cloud di oggettività lasciano questi soggetti da soli in ufficio, sotto il riflettore dell’evidenza, che ne sancisce il discutibile contributo.

La minaccia è ancora più elevata se si prende in considerazione come sono cambiati i knowledge workers in questi due anni. Anche chi in precedenza non aveva la consapevolezza dell’assurdità del modello di lavoro in cui era imprigionato, ora lo vede nella sua interezza. L’assurdità del commuting, delle ore inutilmente spese sui mezzi pubblici, bovinamente pressati tra migliaia di sconosciuti. L’assurdità dello stare rinchiusi nella frustrante solitudine di un’automobile per ore intere. L’assurdità delle corse per arrivare al lavoro in tempo, dei ritardi, dei cipigli dei violinisti controllori, pronti ad indicare come indolenza ed inaffidabilità quella che era solo cattiva organizzazione sociale e lavorativa.

Nel settore pubblico, i ministri Brunetta e Cingolani insistono sulla necessità di riportare in ufficio i lavoratori, nella stolida difesa di un modo di lavorare non più rispondente ai valori collettivi che si sono sviluppati in questi due anni. Lo Stato sceglie quindi di ignorare le conseguenze personali, sociali, ambientali ed economiche di questa decisione. Volendo ignorare le prime tre categorie, in un momento come l’attuale, in cui il costo dei carburanti schizza alle stelle a causa della guerra in Ucraina, è una decisione di puro estraniamento dalla realtà ed egoismo. Un lavoratore generico medio che si rechi al lavoro in auto, si ritrova infatti a spendere una consistente ed ingiustificabile somma ogni mese – la cui maggior parte, ricordiamolo, va in accise a favore dello Stato, un doppio abuso. Probabilmente gli statali saranno forzati a rientrare, stretti come sono nell’inevitabilità della propria condizione, legata a qualunque decisione, più o meno sensata, l’autorità politica possa prendere. Non necessariamente così avverrà nel settore privato. 

Il fenomeno del Great Resignation – le Grandi Dimissioni – ha già colpito profondamente le aziende, mettendone molte in difficoltà di organico. In parte, tale fenomeno è dovuto all’esacerbazione delle sindromi da esaurimento psicologico preesistenti alla pandemia, ma che la stessa ha fatto esplodere. Una riscoperta, per molti, del senso della vita, non più necessariamente legato alla propria attività lavorativa.

Ma accanto a questo fattore, il back to office, sia pure a tempo parziale, è un elemento certamente molto importante. Da tutti gli head hunters arriva univoca un’indicazione, valida soprattutto per i lavoratori più giovani: se un impiego legato alla conoscenza non viene offerto in modalità nativamente digitale, trovare candidati interessati è molto difficile. 

D’altro canto, le aziende che tentano di riportare i propri collaboratori in ufficio, sia pure a tempo parziale, hanno elevate probabilità di perdere i propri talenti a favore di competitors che offrano invece condizioni nativamente a distanza. Peggio ancora, se esse condizionano il permanere in una modalità a distanza ad una riduzione dello stipendio. Nel mondo moderno – ma in realtà è sempre stato così – la retribuzione premia la capacità di effettuare un compito e di generare valore per l’azienda, non la modalità attraverso la quale tale valore viene generato. Ridurre lo stipendio ad un collaboratore che scelga di rimanere a distanza, o forzarlo a ritornare in ufficio, genera per quest’ultimo un disvalore che prima o poi cercherà di riequilibrare. E l’arrivo di un competitor che offra condizioni di lavoro a distanza, anche a parità di retribuzione, diventerebbe una sirena molto difficile da ignorare.

Nel fenomeno globale di change management che la pandemia ci ha costretti ad intraprendere, siamo attualmente in fase di storming, alla ricerca di un nuovo set di regole che ridefinisca i rapporti tra le diverse parti sociali e gli individui. Assisteremo senza dubbio a numerose oscillazioni, prima che il sistema trovi un nuovo punto di equilibrio, ma è certo che niente sarà più come prima.

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