CITTADINI & UTENTI

Discutere di pandemia, di guerra

Non eravamo preparati alla pandemia. Ora lo siamo ma sembra che sappiamo solo replicare quel clichè. E la guerra non è così.

Non ho l’abitudine di discettare sui massimi sistemi, tutt’al più me li tengo per me. Figuriamoci in materia strategica e militare, che mai ho frequentato. Non riesco però a non essere esterrefatto dall’”impensabile” che stiamo vivendo: siamo transitati come un fiume che s’immette in un altro dalla “peggiore catastrofe dopo la guerra mondiale” a una che, se possibile, a quella ancora più si avvicina. L’espressione “senza precedenti” domina stabilmente, come l’anticiclone estivo. Chi ha per due anni continuato a dire della pandemia, da cui forse stiamo uscendo, “siamo in guerra”, ora ha davanti quello che realmente una guerra è. 

Nella pandemia, bene o male, con mezzi e approcci diversi, con priorità alterne e mutevoli, tutti i Paesi hanno combattuto per un medesimo fine, debellarla, sradicarla. Ora invece  abbiamo due fazioni che perseguono con il mezzo della forza finalità diverse e inconciliabili con il dialogo e la negoziazione: la guerra, appunto. Là non c’erano sfumature d’interesse: o la neutralizzi o hai finito. Qui, c’è l’interesse di alcuni, la neutralità di altri, la concessione possibile, il pacifismo con le terga altrui, il gas, la Cina, l’Europa coniglia di cuore e lepre di gambe. La guerra, appunto.

La grande marcia “per il lavoro e la libertà” voluta da M.L.King nell’agosto 1963, quando gettò i fogli scritti e proseguì a braccio con il suo dream, era un pacifismo attivo contro una violenza di regime. Non era una guerra, non era questa guerra di cui ora si discute dopo avere discusso due anni di pandemia.

Siccome i palcoscenici, le agorà, le arene sono rimaste le stesse, nemmeno si sono smontati i pulpiti e i baldacchini, la discussione è rimasta com’era. Parafrasando Von Clausewitz, la guerra non è che la pandemia proseguita con mezzi diversi. E quanto la discussione ubriacante sulla pandemia abbia condizionato, forse per sempre, il modo di dibattere i problemi è, credo, sotto gli occhi di tutti. Che cosa caratterizza(va) la discussione sulla pandemia?

  • La circolarità: è tramontata quell’impostazione cartesiana di partire da una premessa e per catene logiche giungere a conclusioni. Una linea retta. La pandemia è stata discussa circolarmente, ritornando sulle premesse (i dati, la “scienza”) per contestarle, usando le conseguenze per ribaltare le cause.
  • La contrapposizione olistica: o sei un pro o sei un contro. Parli di influenza ? Negazionista. Predichi prudenza ? Sei un culo di pietra statalista. Posizioni dialogiche intermedie? Ascoltate ma solo nella vibrante attesa che una parola, una smorfia facesse cadere il proponente in una delle due fosse dei leoni.
  • L’emozionalità mediatica: invece di separare aspetti sanitari, economici, sociali e casi umani, il tutto viene mescolato e schierato. Stiamo perdendo le piccole imprese ? Scusa, scusa c’è qui il caso della signora con la madre da un mese in ventilazione. Mancano posti letto ? Aspetta, facciamo parlare il ristoratore che non ha ricevuto i ristori, amaro gioco di parole.
  • Il nemico impalpabile: si parla di qualcosa, il virus, che non vediamo, di cui nessuno può spiegare i moti, le dinamiche. Siamo solo spettatori, possiamo curare e vaccinare, sapendo però che le cure sono incerte e i vaccini non seguono le nuove varianti. Se abbiamo vinto, non sappiamo il perché, tant’è vero che acceleriamo le aperture frenando con l’altro piede (fino a giugno un vaccino depotenziato da un paio di varianti).

Così, allo stesso modo,  ci stiamo regolando su qualcosa, la guerra, che nella sua follia ha la lucidità degli eventi razionali. Di fronte alle stravaganze di Amleto, dice Polonio: Se questa è follia, c’è in essa del metodo. Ci sono delle premesse (la situazione ai confini ex-URSS, la mancata integrazione europea della Russia, la sproporzionata dipendenza enegetica, il potenziale avverarsi di un mostruoso unicum Russia-Cina) che sono state ampiamente trascurate. La debolezza istituzionale  ha partorito leader UE di cartapesta, burocrazia, cinque anni di negoziati per l’uscita di uno dei Paesi che per prestigio e peso militare conveniva tenersi a tutti i costi, scaramucce per prodotti alimentari e per curvature di banane. Non certo De Gaulle, Adenauer, De Gasperi. La stessa signora Merkel, a ben vedere, deve la sua longevità politica all’avere sempre e comunque mantenuto in agenda l’interesse, il “particulare” del suo Paese.

Qualcuno ha giustamente osservato che la tara dell’Occidente non è il capitalismo ma il mercantilismo. Aprire i canali per portare in Russia e Cina la nostra civiltà del superfluo ha finito per diventare un boomerang che ci ha invaso di gas e produzioni a basso costo in spregio a diritti del lavoro, ecologia e libertà civili. Ma potete fare affari come se niente fosse con una nazione in cui ci sono gli “oligarchi” ? Neanche gli Ateniesi di Pericle, di Demostene. Con una nazione che ti condanna a morte se getti una cartaccia ? Questo abbiamo fatto, mentre parlavamo di valori non negoziabili, identitari.

Trattare la guerra in dialettica circolare significa dimenticarsi che essa comunque dovrà finire a atterrare da qualche parte. Come diceva Falcone della mafia, è un fatto umano e i fatti umani finiscono. La legge di Stein lo assicura: “Ogni cosa che può avere una fine, l’avrà”. E’ il come che fa la differenza. Scannarsi ora sulle cause è solo perdita di tempo. Né credo che ad alcuno frema in petto l’opzione nucleare.

Trattare la guerra in modo olistico è deprecabile. Perché impedire di pensare che mandare armi sia una mossa sbagliata ? Che vantaggio ci arreca una Russia sconfitta e umiliata e con essa un pezzo della storia d’Europa, tanta cultura e vicinanza con noi ? Ma Putin vuole rifare il soviet. Probabile, ma non è un fatto, è un’ipotesi. Le bombe invece sono un fatto.

Trattare la guerra mischiando casi umani, fuga disperata, eroismo patriottico con la fredda analisi della situazione sul terreno contribuisce alla confusione. Le forze in campo sono dall’inizio stabilite e tifare per la vittoria dell’Ucraina significa realisticamente al massimo votarla a uno stillicidio di guerriglie come abbiamo visto nei casi dell’ex-Jugioslavia, della Cecenia, dell’Afghanistan, e a  fughe in massa.

Trattare la guerra come se fosse una calamità impalpabile inviata dal dio Marte significa trascurare quali sono gli equilibri di ciascun Paese. Quando l’uomo con il gas incontra l’uomo con la casa fredda, l’uomo con la casa fredda deve sedersi e negoziare. Si è detto: il negoziato inizia quando le parti hanno da perdere nella sconfitta più di quello che avrebbero da guadagnare nella vittoria e in questo le sanzioni servono più delle armi. Quello che non serve è dire che stiamo coi nostri acquisti di metano finanziando la guerra di Putin.

Mi auguro che l’Ucraina termini prestissimo questo suo calvario, che non entri nella NATO, che entri nella UE, si ricostruisca e ricompatti  e poi fra qualche anno voglia ospitare i migranti della via balcanica o le redistribuzioni dal Mediterraneo. E, come nel finale dei “Quadri di un’esposizione” del russo Mussorgski, campeggi possente l’ucraina Grande Porta di Kiev .

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