
Come ogni leader della storia, Putin ha bisogno in questo momento di tenere coesa e motivata l’opinione pubblica interna, fornendo spiegazioni di quanto sta accadendo e giustificando il conflitto – e le possibili conseguenze future per i russi – con motivazioni nobili.
La propaganda che gira nelle ultime ore sulle chat WhatsApp parla di uno scenario in cui la Russia non è un paese invasore, ma piuttosto un difensore delle popolazioni russofone che vivono in Ucraina nella regione del Donbass. Secondo tale tesi, la Russia avrebbe attaccato preventivamente poiché esisteva un piano ucraino, supportato dalla NATO, per attaccare le autoproclamate repubbliche autonome e procedere ad una pulizia etnica che le avrebbe riportate sotto pieno controllo ucraino. Per questo motivo, Putin avrebbe deciso di scatenare un attacco preventivo, diretto ad anticipare quello occidentale, e mettere in sicurezza le regioni russofone dell’Ucraina.
Anche volendo ammettere l’esistenza di un piano di cui non c’è traccia sul terreno – nel mondo moderno i movimenti di truppe sono più che mai evidenti al vigile occhio dei satelliti – la tesi costituita ad uso interno non regge alla più semplice verifica logica. L’ingresso delle truppe russe in Donbass è stato seguito dall’assalto ad altre regioni dell’Ucraina, e come detto allo stato attuale le colonne attaccanti muovono verso Kiev. Se il fine fosse stato quello di mettere in sicurezza una regione, e non quello di ricondurre l’Ucraina sotto dominio russo, ci si sarebbe potuti fermare lì.
La guerra dell’informazione continua anche sul fronte estero, con l’esplosione della propaganda pro-russa, la controinformazione occidentale, ed in generale la proliferazione delle fake news, in omaggio al famoso detto secondo cui la prima vittima della guerra è la verità. Si passa dalla leggenda del fantasma di Kiev, un eroico pilota ucraino che in poche ore avrebbe abbattuto un numero considerevole di aerei nemici; al vero eroismo del presidente ucraino che pur davanti a offerte occidentali per mettersi in salvo, rimane al suo posto – una specie di 8 settembre alla rovescia.
In grande difficoltà sono ovviamente tutti quelli che in passato, anche in perfetta buona fede, hanno avuto rapporti di cordialità con Putin e ne hanno magnificato le doti di leader. Il magnate russo Abramovich ha appena annunciato la vendita del Chelsea, e la destinazione dei proventi al sostegno delle vittime della guerra in Ucraina. In Francia, Marie Le Pen è stata costretta a ritirare precipitosamente migliaia di brochure elettorali in cui veniva riportata una foto di Putin a riprova dell’amicizia tra i due. In Italia, circola un vecchio filmato di Berlusconi in cui Putin veniva definito come il miglior leader del mondo; e foto di Salvini sulla Piazza Rossa con tanto di maglietta con la faccia dell’oligarca russo.
Nel conflitto informativo entrano anche iniziative estreme, portate avanti dai soliti esponenti del Cretinevo, i quali, come i bambini, ritengono che il miglior modo di lottare contro qualcosa sia mettersi una mano davanti agli occhi per non vederla. Incapaci di esercitare il pur minimo senso critico, questi individui gettano manzonianamente fuori viva o moia con grande indifferenza, incapaci di concepire l’esistenza del bene all’interno di un apparente o momentaneo male.
Il direttore d’orchestra russo Valery Gergiev è stato licenziato dalla Filarmonica di Monaco soltanto perchè “non ha preso posizione” circa la situazione attuale. In Italia, l’Università Milano Bicocca ha ritenuto – prima di essere costretta ad una precipitosa ritirata – che il corso del prof. Paolo Nori su Dostoevskij potesse essere inopportuno, vista la situazione attuale.
Ora, su quest’ultima cretineria sarà opportuno spendere qualche parola franca, a futura memoria. Quale mente può mai concepire la cancellazione di un pezzo di cultura in nome dell’eventuale offesa alla sensibilità di qualcuno? Come può chi risiede in una università o in un’istituzione culturale non comprendere che l’arte, la letteratura, la musica sono linguaggi universali che trascendono l’immanenza del momento politico e gettano ponti tra i popoli e le generazioni?
Nel volere proteggere la propria audience da qualsivoglia stimolo negativo – e, diciamolo, nel voler in questo proteggere il proprio portafoglio – le istituzioni culturali che si comportano in questo modo danno una mano ai nemici che a parole dicono di voler combattere. Impedire ai propri studenti o al proprio pubblico di sapere che la Russia non è solo la colonna di carri armati in marcia verso Kiev, ma Tolstoj, Dostoevskij, Tcajkovskij, Gogol’, significa spezzare quei ponti di bellezza che anche nell’ora più buia ci ricordano che siamo tutti umani.
Chi abbassa la propria testa all’incivile cancel culture favorisce la divisione tra individui e comunità, dato che non avendo più punti in comune, linguaggi universali attraverso i quali dialogare, questi si rinchiuderanno in sé stessi negando qualunque umanità al prossimo. E la negazione dell’umanità del prossimo è il primo passo – non a caso usato nella propaganda pre-bellica – per la sua cancellazione.
Le istituzioni culturali devono difendere gli artisti ed i letterati, gli Abele del nostro mondo, che attraverso la loro opera fecondano i campi del pensiero; e non essere il coltello di Caino che, incapace di comprendere il bene o di imitarlo, preferisce cancellarlo per rimanere unico, ignorante, violento e mediocre. E per farlo, è necessario che gli uomini che le rappresentano abbiano non solo lo spirito critico, ma il coraggio morale e materiale di prendere decisioni che magari espongono alla critica degli ignoranti, ma che rendono un servizio all’umanità intera.