
Traduzione e adattamento di Andrea Aparo von Flüe.
Versione originale di Geoffrey Woodling
Sembra proprio che spesso l’ultima cosa che gli urbanisti prendono in considerazione nel loro lavoro siano le persone e i loro interessi. Eppure le città sono delle persone, per le persone. Nel corso della storia le città sono state la destinazione di chi lasciava la campagna, cercando una qualità della vita diversa, migliore, superando pericoli e ostacoli.
Oggi, e ancora più domani, le dinamiche e le motivazioni sono analoghe. Lo potranno confermare, nel prossimo decennio, altri 100 milioni di cinesi. A dire il vero, le città sono ancora più lontane di un tempo per chi cerca di attraversare il Rio Grande o il Mediterraneo, o le fredde foreste polacche per raggiungerle.
Il mondo deve affrontare la possibilità che si verifichino migrazioni di massa da aree rese inabitabili dai cambiamenti climatici. Per chi ha la necessità e la determinazione di trovare una vita migliore le città saranno, come è sempre stato, la meta più ambita. Di certo le nazioni altamente urbanizzate, loro destinazione finale, non possono bloccare tali migrazioni se non ricorrendo a pratiche barbare, inaccettabili.
Le città non sono semplicemente ambienti costruiti. Sono sistemi funzionali complessi. Devono essere viste come ecosistemi, strutture complesse che definiscono le modalità ottimali di utilizzo, per scopi specifici, di risorse comunque limitate, spesso lontane. La soddisfazione della dipendenza da tali risorse, spesso data per scontata, è tutt’altro che certa.
L’essenza vitale delle città è il dinamismo dei cittadini, per i quali è essenziale l’accesso a servizi di base come acqua, energia, cibo, sicurezza, assistenza sanitaria, mobilità.
Il modo e la qualità con cui questi servizi vengono forniti, insieme alla spinta a costruirsi una vita migliore, fa sì che le città abbiano successo, alimentando il motore della prosperità nazionale.
Il rovescio della medaglia non va dimenticato. Le città sono feroci fonti di inquinamento dell’ambiente stesso da cui dipendono e come dimostrato da eventi recenti, molti dei servizi di base sono estremamente vulnerabili.
Quando si pensa al futuro delle città, è fondamentale anticipare come saranno modellati il loro ruolo e la loro struttura. L’ossessione di imporre nuovi concetti di design urbanistico, lontani dall’esperienza quotidiana dei cittadini, ha danneggiato il pensiero sul futuro della città. In nessun luogo questa arroganza è più dannosa che in alcuni dei più grandi insediamenti informali del mondo che occupano gran parte dell’area abitata di molte iper-città.
Le persone non possono stabilire un rapporto con infrastrutture che le spostano in nome del progresso. Possono però cercare, a livello locale, con una miriade di soluzione inventive, di soddisfare i loro bisogni e desideri più elementari.
La capacità di trasformare la qualità della vita offerta dalle città richiede progetti a lungo termine. Avviarli spesso sembra compito impossibile, anche perché chi detiene oggi le leve del potere non è pronto a condividere parte del proprio successo con chi prenderà il suo posto, sempre che addirittura non cerchi attivamente di impedire tale possibilità.
Eppure i nuovi immigrati sono pronti a lavorare il doppio delle ore e a vivere in spazi sovraffollati perché ciò offre loro l’opportunità di stabilirsi e di accedere a una vita migliore di quella precedentemente vissuta. Le città devono fare in modo che chi ha bisogno non venga sfruttato da chi è senza scrupoli. Attenzione a non instaurare politiche malsane in nome della protezione dei posti di lavoro degli attuali cittadini. Leader politici hanno affermato che è necessario privare i futuri migranti dei lavori a bassa retribuzione per dissuaderli dall’arrivo nelle nostre città. Alcune nazioni nordiche, altrimenti illuminate, hanno aumentato i livelli salariali minimi così da negare posti di lavoro ai nuovi arrivati. Non solo sono azioni e affermazioni vergognose, che demonizzano i migranti, ma comportano la formazione, intorno alle città più grandi, di una cintura di ghetti violenti, veri centri di privazione, dove “contenere” le comunità di migranti.
In pratica, le città differiscono enormemente nella loro capacità di rispondere alle numerose sfide che i loro cittadini devono affrontare quotidianamente. Il modo di funzionamento delle città sta diventando la preoccupazione centrale, in particolare mentre i governi tentano di gestire tutti i tipi di rischi, dalla pandemia sanitaria al riscaldamento globale o alla criminalità.
Ancora più dubbi vengono generati dalle soluzioni proposte dal mondo del business privato, dove il profitto viene anteposto ai risultati operativi. Si tratta di una problematica che si manifesta a livello sia locale, sia nazionale, perché i governi centrali privano le città dell’autorità o delle risorse finanziarie necessarie, talvolta fino al punto di compromettere i servizi sanitari pubblici locali.
La pandemia ha esacerbato questa mancanza di fiducia nell’autorità, evidenziando il sospetto, ampiamente diffuso, che il sostegno del governo alle politiche vaccinali, in nome della salvaguardia della salute pubblica, possa nascondere una componente negativa, di controllo. Il tutto è in parte alimentato dal modo in cui i social media vengono percepiti, quando vengono utilizzati per ridurre l’esposizione al rischio virale, sempre per preservare la salute pubblica, come invasori della privacy personale.
La combinazione di queste preoccupazioni deve essere valutata tenendo conto dell’inesorabile crescita della migrazione che sta alimentando l’urbanizzazione in tutto il mondo. Sono le città ad essere in prima linea nella ricerca di modi per accogliere i migranti. Pochi offriranno opportunità di lavoro nelle tradizionali industrie a basso salario che stanno diventando sempre più automatizzate. Avvalersi dell’energia dei migranti, principalmente giovani e spesso con buona istruzione, in nuove attività o imprese sarà fondamentale, ma è raramente oggetto di sufficiente attenzione.
Le due dimensioni di cui si è parlato fino ad ora, ovvero la mancanza di fiducia nelle autorità e la nuova economia dei migranti, alimentano gran parte dell’incertezza che le città devono affrontare. Immaginiamoli come due assi cartesiani che, incrociandosi nell’origine, dividono il piano in quattro quadranti. In gergo tecnico abbiamo così costruito una matrice 2 per 2.
All’origine, ovvero all’intersezione dei due assi, si posiziona il valore di massima incertezza. All’interno dei quattro quadranti, le città affrontano diverse combinazioni delle sfide generate dall’impatto delle forze esterne dei cambiamenti in atto.
Le forze del cambiamento possono avere un impatto sui problemi che le città devono risolvere tanto dirompente quanto adattivo.
Le risposte alla pandemia di coronavirus sono un valido esempio. La morte di molti milioni di persone è una catastrofe che viene vissuta in modi assai diversi. Per alcuni ha avuto un effetto drammatico, ma positivo, sulla sanità pubblica; per altri terribili conseguenze economiche causate dal collasso delle imprese.
La capacità di adattamento delle città è una funzione della loro resilienza. Alcune cambiano protette da bastioni di apparente ricchezza, potere e influenza; altre protette dal loro ruolo di motori dell’economia di produzione, impegnate nella trasformazione dei materiali su larga scala. Comunque, la loro resilienza viene messa alla prova dall’inerzia dei sistemi e dalla massa degli interessi pregressi. Chi deve ancora sperimentare la diversità delle opportunità di sviluppo economico possiede spesso l’enorme capitale d’ingegno e di capacità di innovazione delle giovani generazioni. Né più né meno delle città ancora da stabilire o emergenti, condividono l’accesso alle reti globali di voce e dati, assicurando che tutti siano consapevoli del loro potenziale destino, ma mancano di molte infrastrutture di base. Tutti sono comunque immensamente vulnerabili all’impatto dirompente di forze potenzialmente catastrofiche.
I modi di evoluzione delle città offrono alle stesse opportunità di reinventarsi che possono essere condivise in tutti e quattro i possibili quadranti, indipendentemente dalle condizioni iniziali. Come ci ricordano gli avvenimenti di borsa, né l’esperienza passata, né l’innovazione radicale garantiscono il successo! Per anticipare dove possono svilupparsi tali opportunità, dobbiamo caratterizzare ognuno dei quattro quadranti prima descritti.
Il primo quadrante è il Daily World (il mondo di tutti i giorni) dove la vita in città è sfida continua perché la maggior parte dei cittadini deve ancora costruirsi il modo di guadagnare abbastanza per sopravvivere. Questo mondo è quasi l’esatto opposto di quello del secondo quadrante, in cui i cittadini competono per accaparrarsi più ricchezza di quella che già gestiscono, il What’s Next World (il mondo del che altro c’è).
In questo mondo il prodotto dell’innovazione, spesso high-tech, ha la capacità di attrarre e promuovere le migliori menti imprenditoriali ovunque esse siano.
A volte questi due mondi si scontrano quando scoppia la protesta di grandi comunità di migranti o di altri gruppi culturalmente svantaggiati.
Tra questi due estremi si posizionano le città che sono, ognuna con il suo modo specifico, più resistenti al cambiamento per i loro investimenti passati o per l’impegno in attività in declino. Spesso caratterizzate da una forza lavoro matura, il loro know-how e l’intento di sostituire le infrastrutture obsolete incoraggiano lo sviluppo di nuovi processi per fornire qualità della vita con sistemi e tecnologie sostenibili.
Tali città possono essere state centri consolidati di industrie pesanti di produzione di massa, ma il ritmo della globalizzazione è tale che molte altre sono state create dal nulla solo per sfruttare opportunità di lavoro di breve durata, poiché tali attività diventano rapidamente obsolete.
L’occupazione industriale sta cedendo il passo alla preoccupazione di sostenere il benessere della società nei nuovi ruoli richiesti dal Citizen-Centric World (il mondo incentrato sui cittadini).
Le città forse più sotto tensione, più critiche, sono quelle che devono ancora diventare traino dell’economia per le loro giovani popolazioni in rapida crescita, spesso non dotate delle competenze, della capacità di governo o delle infrastrutture necessarie per resistere alle forze della distruzione creatrice (vedi Joseph Schumpeter).
Tali città stanno abbracciando le opportunità digitali offerte dalle reti di comunicazione elettronica, consentendo alle loro nuove generazioni imprenditoriali di sfruttarle al meglio.
Definiscono nuovi mercati che sfidano il potere consolidato. Queste città sono oggi spesso focolaio di conflitti con governi dal carattere sempre più autoritario, che lottano per mantenere il controllo delle leve del potere e dei privilegi. Tali città possono essere caratterizzate come The Hot World (il mondo caldo).
In tutti questi tipi di città, è già evidente che i cittadini cominciano a esprimere le loro richieste in modi nuovi e con nuovo vigore.
Si relazionano con coloro che li governano chiedendo loro di rendere conto delle loro decisioni e risultati, non della loro ideologia. Laddove le autorità pianificavano servizi e infrastrutture preoccupandosi poco dell’impatto sulla vita delle persone coinvolte, ora scoprono che devono rispondere alle richieste di servizi che corrispondano ai migliori standard di qualità. Nella maggior parte dei casi ciò si rivela problematico dal punto di vista politico, finanziario e organizzativo.
Spostare la fornitura di servizi a nuove organizzazioni che servono aree più vaste su scala più ampia non può voler dire esternalizzarne la responsabilità e, in effetti, allontanerà ulteriormente i decisori dai cittadini.
La portata di questo problema è tale che in molti casi le autorità cittadine hanno cercato di limitare i diritti dei nuovi migranti di accedere ai servizi forniti ai cittadini “consolidati”, sponsorizzando di fatto una sorta di apartheid che rafforza il pregiudizio verso i nuovi immigrati già presente nella maggior parte delle società.
Sono politiche sbagliate, anche perché non tengono conto della probabilità che nei prossimi anni molte aziende pubbliche incontreranno comunque crescenti difficoltà nella fornitura di servizi. Vedi ad esempio il problema delle forniture d’energia durante la transizione a fonti rinnovabili ma per il momento meno affidabili.
Alcune città, indipendentemente dalle dimensioni o dalle circostanze, per innescare il cambiamento, guardano a tentativi di localismo. Tuttavia, molte comunità locali sono troppo piccole per fornire la gamma di servizi attesi dai loro membri. La mobilità è un esempio calzante, dove i piccoli quartieri possono cercare di limitare l’accesso per ridurre inquinamento o congestione, ma non possono farlo a costo di interrompere le reti di servizi a scala cittadina. Il riequilibrio dell’accesso ai servizi stabilisce la necessità per le reti di operare di fatto in tutte le aree.
L’alternativa di trasferire le persone, volenti o nolenti, da un sobborgo all’altro è altrettanto irrealistica, almeno nelle società democratiche. L’afflusso di nuovi migranti è compensato in modo più consistente da un esodo dei residenti storici verso nuove case, fuori città. Tuttavia, lo stock di case esistenti è spesso non disponibile per i migranti, ridotto sia dalle crescenti difficoltà di ristrutturazione delle abitazioni esistenti, sia dalla carenza di offerta di alloggi a prezzo calmierato o semplicemente accessibile.
Il localismo può offrire l’illusione di un maggiore benessere dei cittadini, ma chiaramente deve affrontare enormi sfide di fronte alla portata del cambiamento necessario per mitigare la minaccia di gravi disagi.
Da considerare la possibilità che le città non possono più funzionare come entità distinte. Meglio pensarle come sistemi che si estendono a luoghi fino ad allora considerati rurali o, nel migliore dei casi, extra-urbani. La distanza che separa il luogo in cui vivono i cittadini da dove lavorano diventa essa stessa fluida. La rapidità con cui i modi di lavoro sono cambiati durante la pandemia testimonia la crescente capacità dei media digitali di consentire il lavoro a distanza.
In molte città sta crescendo la forza di non-lavoro, cioè coloro che non lavorano più. La sfida più grande sarà quella di gestire i deboli e gli infermi nei loro ultimi anni di vita. Un compito che, quasi senza eccezioni, va oltre la capacità delle autorità locali di finanziare o fornire servizi. Il declino della responsabilità familiare nei confronti dei membri anziani deve ancora essere affrontato in molte società. Può diventare il fulcro di iniziative della comunità locale in cui sia le infrastrutture che i servizi possono essere forniti su una base condivisa che non separi più gli anziani da altri gruppi di età. Un tempo le città erano riconosciute come il centro per la fornitura di molti servizi, in particolare l’assistenza sanitaria. Esiste la possibilità che la loro distribuzione e fornitura possa non essere più vincolata ai confini della città.
Mentre la funzione di servizio delle città può spostarsi verso l’esterno e decentrarsi, i nuclei urbani stanno assumendo il ruolo di centri dell’economia culturale. Il desiderio di condividere l’esperienza personale in tutte le forme di intrattenimento, ospitalità ed educazione sembra essere la forza attrattiva dominante che agisce in opposizione alla dispersione dell’attività.
Fino a che punto le persone considerano tale esperienza importante per il loro benessere, per ora, non è chiaro. Tuttavia, l’impatto psicologico negativo dell’isolamento sperimentato da molti durante la pandemia suggerisce che la socializzazione, al lavoro, nel gioco o a scuola, sia una componente importante del benessere.
La distribuzione spaziale dei servizi culturali può accompagnare quella dei residenti, ma non è affatto certo che le città piccole possano ospitare la diversità dell’intrattenimento che è il segno distintivo di molte grandi città. La dispersione dei residenti più ricchi, dai centri urbani alle città più piccole, può dare impulso all’intrattenimento culturale locale.
I media digitali consentiranno, forse, la partecipazione virtuale remota a forme più elaborate di esperienza culturale.
Indubbiamente tali cambiamenti metteranno in discussione la perdurante distinzione tra comunità urbane e rurali.
Il miraggio dell’economia rurale evaporerà quando riconosceremo che quasi tutti noi si appartiene all’economia urbana, indipendentemente da dove si vive o lavora.
Il tutto potrebbe avere come conseguenza politica l’erosione dell’identità “tribale” della rappresentanza di partito.
Le città senza confini metteranno in discussione alcuni dei presupposti fondamentali dell’organizzazione della vita cittadina. Ciò minerà l’apparente funzionamento della democrazia locale, ma col tempo potrebbe servire a rivitalizzare quella che in molte città è una forma marginale di rappresentanza.
La nozione di città, come conosciuta dal mondo occidentale, ha imposto una visione storica caratterizzata da stili costruiti, reti stradali e prestazioni, ora percepite come obsolete o dannose e in contrasto con il modo in cui potrebbero evolversi le città nuove.
Le città più innovative possono liberarsi dal giogo dei vincoli del passato e sviluppare nuovi modi per attirare la prossima generazione di migranti. Coloro che cercano di ostacolare ogni nuova immigrazione si condannano al declino graduale o all’irrilevanza globale.
Le città devono trovare nuovi modi di esercitare l’autorità che non soffochino l’innovazione, ma garantiscano parità di accesso alla fornitura dell’insieme dei servizi, spazio, acqua, salute ed energia compresi. I nuovi sistemi tecnologici distribuiti saranno il catalizzatore di nuovi modi di servire i cittadini.
Se i cittadini inizieranno ad assumere il controllo di come il loro comportamento può modellare il loro habitat e la sua organizzazione, l’autorità imposta potrà essere contrastata.
Si potrebbe così arrivare a definire ciò che si è provvisoriamente chiamato Wellconomy, l’economia del benessere del pianeta e dei suoi abitanti.
Le città che la perseguiranno con maggiore successo diventeranno gli attrattori più efficaci per i futuri cittadini.