
Nel mese delle speranze natalizie e buoni propositi per l’anno nuovo proseguono le storie di caporalato digitale, stavolta con il racconto degli eterni stagisti. Al di là di offerte di lavoro fin troppo vaghe nella richiesta di competenze, c’è un mondo di incertezza con l’offerta di continui stage che alimenta l’eterno precariato cui sono condannati la maggior parte delle nuove leve del Paese. E nel mondo digitale questo fattore di facile ricambio e frequente è un elemento tanto comune da essere sdoganato con un semplicistico “funziona così”.
Certo, c’è chi fece roboanti annunci che proclamavano la restituzione della dignità ai lavoratori per decreto. Illusionismo politico, che ben pensava che con una riduzione dei contratti a termine ad un massimo di 24 mesi anziché 36 si potesse creare una speranza per i newcomers. La realtà, però, è più dura di qualsiasi propaganda e per quanto possa essere negata o distorta, semplicemente continua ad esistere e produrre i propri effetti.
Chi sono gli eterni stagisti del digitale? Nient’altro che gli schiavi delle moderne piramidi di società o studi di consulenza, sviluppo o progettazione ad esempio. Al di fuori dell’interesse dei sindacati o del facile voto di scambio proveniente dalla gran parte dell’attuale offerta politica.
Sul lato della retribuzione, l’eterno stagista è tenuto su quella fascia di reddito che rende impossibile un’indipendenza economica, e spesso fra le domande di colloquio viene anche chiesta la sua situazione abitativa. Insomma: se è o può essere ancora a carico dei genitori, o se ha una convivenza in atto. E a quanto dicono i professi esperti HR su LinkedIn, in Italia sembra addirittura un errore fatale per il colloquio chiedere prima a quanto ammonti la retribuzione. Mi viene riferito che altrove vi sia invece l’uso di pubblicare un range di RAL onde evitare che tanto il recruiter quanto il candidato perdano tempo, ma forse è qualcosa di ben lungi dalla tradizione di padronato nostrana.
Nel nome di una visione distorta arriva anche l’ausilio di una narrazione trendy: non si parla di abitare precariamente, ma diesperienze di co-living. Insomma: quando non ci si può permettere da soli una casa e si deve optare per il coabitare con degli sconosciuti oggi non è più un problema di precariato, bensì raccontato addirittura come un’esperienza.
Ulteriore problema è il tempo. Gli stage cessano, e il personale viene ricambiato con estrema frequenza. Non si provvede alla formazione dal momento che spesso si tende a pretendere già all’accesso competenze ben superiori rispetto all’offerta formulata. Con gran perdita di tempo per il lavoratore che – pur di non essere additato come choosy dal boomerone di turno – accetta condizioni e poi si ritrova a contemplare il termine del proprio periodo di stage, cessare, dunque cercarne un altro. E beninteso: sia mai che venga riconosciuto finalmente che abbia qualche esperienza. Ad ogni assunzione sarà sempre un dover ricominciare da zero.