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Il “politically correct” e il “nazionalismo di ritorno”

Claudio Manduchi, “costretto” ad esperienze internazionali per i suoi ruoli in Japan Air Lines e Air Kenia, ci invia alcune considerazioni che possono offrire spunti di riflessione

Vorrei gettare un sasso nelle acque perigliose del politically correct applicato alla pubblicità che passa in televisione per vedere se sono io troppo esagerato od altre persone provano il mio stesso disappunto.

Negli anni i nostri più grandi registi di cinema sono stati chiamati a dirigere spot pubblicitari: da Fellini a Sergio Leone, da Tornatore  a Sorrentino si sono tutti cimentati in questi micro film che sono spesso entrati nella storia della nostra pubblicità.

Le ambientazioni degli spot e gli slogan erano tipicamente italiani: il caffè, più lo mandi giù e più ti tira sù, veniva degustato in una tipica cucina italiana e le berline di lusso viaggiavano attraverso i paesaggi delle sinuose colline toscane.

Tutto aveva la funzione di ricreare un’atmosfera nella quale lo spettatore si potesse identificare ed essere convinto ad acquistare il prodotto pubblicizzato.

Difficilmente i personaggi, fossero anche dei cartoni animati, avevano un’inflessione della voce meridionale, se non per pubblicizzare prodotti tipici come la mozzarella o il caffè, perché il destinatario degli spot, il “target”, era considerato un abitante del nord Italia, ritenuto più abbiente e disposto a spendere.

Naturalmente la pubblicità è sempre stata mirata ad una fascia di pubblico, il cosiddetto “target”: quelle per i prodotti per le dentiere o per le persone incontinenti hanno un target di persone con un’età avanzata, ma non decrepita, quelle per disfarsi di oggetti usati si rivolgono ai giovani.

La pubblicità deve sempre seguire l’andamento del proprio target, ad esempio quella per prodotti riservati ai bambini presenta sempre un bambino caucasico, uno con origini africane e uno asiatico un po’ come avviene nelle scuole del nostro Paese, così nessuno si sente discriminato.

Tutto questo, con l’avanzare della globalizzazione sta cambiando molto rapidamente; i più grandi clienti delle case di produzione, le case automobilistiche, oramai producono modelli uguali per tutto il mondo e le ambientazioni non sono più le dolci colline intorno a Siena ma i vasti deserti o i ponti avveniristici degli Stati Uniti, più famigliari ad un pubblico mondiale. In questo modo si possono fare dei risparmi molto consistenti e basta doppiare la voce per avere una pubblicità valida per tutto il mondo.

Neanche i testimonial di un prodotto di largo consumo in Italia come il caffè, sono più attori italiani ma star di Hollywood: George Clooney o Brad Pitt.

Questa trasformazione della pubblicità da locale a globale sembra essere bene accetta dal vasto pubblico o, almeno, il rapporto risparmio benefici ne giustifica l’uso e, direi l’abuso che se ne sta facendo ma, essendo io un ragazzo nato nel ’50 del secolo scorso, trovo che si stia esagerando. A questo proposito vorrei far notare che alcune società come ad esempio Amazon abbiano, a mio avviso, dimenticato il target del loro pubblico in Italia e i loro spot, perfetti per i loro Paesi di origine, hanno poco a che fare con gli acquirenti del nostro.
In realtà Amazon ha prodotto in Italia lo spot di Mohammed, apparentemente un loro dipendente con una storia improbabile come una moneta da tre euro.

A questo punto mi chiedo se sono io ad essere tropo esagerato, se altre persone hanno avuto la stessa sensazione o se non possa trattarsi di una latente forma di nazionalismo di ritorno, che colpisce un po’ come l’analfabetismo di ritorno…

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