
Boutique, Eccellenze, Top Award, Professionista dell’Anno, e molto altro. L’unico limite è la fantasia, mai la decenza. Ma nelle ultime settimane una forte polemica su tale argomento ha scosso tutto il mondo dell’avvocatura, categoria che si è trovata nell’imbarazzo di non poter più tacere sull’imbarazzo che suscita il mercato degli awards.
Insomma: sono anni che esiste un mercato dei premi, ma le segnalazioni dei pochissimi che richiamavano l’incompatibilità con la deontologia professionale giacevano inascoltate. Ora, alcuni Consigli di disciplina e Consigli dell’ordine stanno iniziando a prendere posizione a riguardo, e un malfidato direbbe che è un atto dovuto in seguito all’eco mediatica dell’accaduto. Molti continuano a tacere, pochi addirittura difendono il sistema.
Viene da chiedersi allora per quale motivo questi premi-fuffa spopolino fra gli avvocati, categoria che – almeno sulla carta del codice deontologico – trova non pochi legittimi vincoli alla pubblicità della propria attività in nome di quella correttezza e dei doveri di probità, riservatezza e decoro che da sempre caratterizzano l’esercizio della professione forense. L’articolo 17 del codice deontologico forense, inoltre, regolamenta forma e contenuto delle informazioni sull’attività dell’avvocato, che devono essere “coerenti con la finalità della tutela dell’affidamento della collettività e rispondere a criteri di trasparenza e veridicità”, conformi a verità e correttezza senza la possibilità di divulgare il nome dei propri clienti e rispettare la dignità e il decoro della professione. È palese che l’attribuzione di un premio come “Professionista emergente dell’anno”, o “Studio legale dell’anno”, senza indicazione dei parametri di valutazione né della platea dei partecipanti, rischia di realizzare una pubblicità comparativa e soprattutto non conforme alle indicazioni deontologiche.
Le regole pertanto esistono ma sono eluse. In modo spregiudicato dal momento che la pubblicità degli eventi di premiazione viene fatta rimbalzare su testate giornalistiche e social, con buona pace della possibilità di un’ignoranza scusabile da parte di chi dovrebbe vigilare o richiamare all’ordine dei comportamenti difformi.
Il rischio è duplice. Da un lato il progressivo depauperamento dell’immagine di un’intera categoria professionale in nome delle pulsioni opportunistiche di alcuni. Dall’altro, un vero e proprio ostacolo all’ingresso o alla permanenza dei newcomers. Come fa un giovane professionista a competere in una categoria dove le regole sembrano valere più per lui che per alcuni “big”, costretto ad assistere impotente al dispiegarsi di questa diffusa ipocrisia?
Delle due, l’una: o si agisce per conformare l’attività dei professionisti alle regole deontologiche attuali, o si ragiona sul loro cambiamento. Ma che si agisca, in nome di un’avvocatura sana che è sempre esistita e che oggi reclama nient’altro che il rispetto delle regole.