ECONOMIA

SIP, Telecom Italia, TIM. E poi? Cosa riserva il domani?

Il messaggio in bottiglia su uno dei temi più scottanti del panorama economico e sociale di questi giorni arriva dall’ingegner Nunzio Tenore, manager che – attualmente all’Organismo Agenti e Mediatori Finanziari (OAM) – ha avuto ruoli di responsabilità strategica e di direzione dei sistemi informatici di Procter & Gamble, Abbott, Rhône-Poulenc Rorer, Farmitalia, GFT Group e Blu, è stato consulente di FIAMM, Ferretti Group. STAR, SEDA Group e Poste Italiane, ha svolto per oltre quattro anni il delicato incarico di direttore ICT all’Agenzia per l’Energia (oggi ARERA).

La vicenda TIM è iniziata molto tempo fa, per cui andrebbe chiamata vicenda SIP e successive modifiche e integrazioni. Era un bel carrozzone, sedi sgangherate con videoterminali sparsi nei corridoi, cavi in vista e sedie zoppicanti tutte spaiate. Satelliti vaganti dall’orbita incerta, come Italcable, mesi per ottenere una dedicata a 9600, linee tranciate per i lavori di Italia 90. Se alzavi la voce qualcuno si muoveva e riuscivi a fare funzionare un modem asincrono a 56k per spedire gli ordini in Germania. O tempora o mores, eravamo giovani. Qualcuno mi spifferò come imminente la privatizzazione di STET (era sparita Efim, erano in vetrina ENEL et alia, tutto sulla scia della finanziaria-monstre di Amato); mi dotai di un gruzzolo di quelle azioni e mi misi ad aspettare. Dopo anni, alzai bandiera bianca rivendendo in perdita e maledicendo i cattivi consiglieri ma poi non so quanti soldi persi nell’inopinato avverarsi della privatizzazione. 

Erano gli albori della telefonia mobile, nessuno nella neonata Telecom Italia voleva entrarci, nessuno ci credeva. A un pranzo di gala dove partecipavo in quanto testimonial di un esordio Telecom nei servizi di rete locale che avevo compicciato assieme a loro, ascoltai con le mie orecchie le lagnanze di chi non voleva essere imbarcato in quello scorporo, il primo di una serie di anda e rianda che portarono ripetutamente in autonomia e in federazione la TIM. In fin dei conti, la privatizzazione di ENEL si può dire tecnicamente ben fatta, scorporo di GRTN cioè la rete di produzione e dispacciamento AT e anche se non fu la “gallina dalle uova d’oro” preconizzata da Franco Tatò il modello Bersani 1999 resse. Non altrettanto lineare fu il caso del gas, con le traversie di SNAM Rete Gas. Il fatto è che l’Italia entrò nel mondo liberalizzato dalla porta delle privatizzazioni senza liberalizzazioni, ci entrò per fare cassa vendendo l’argenteria. Si parla oggi di asset strategico ma a quel tempo dell’asset strategico non sembrava avere contezza nessuno. 

Volarono anni brevi come giorni, avrebbe detto un ligure poeta, e la nostra rete, saldamente tenuta in pancia di Telecom Italia senza capire che era quello l’asset da salvaguardare, diventò un oscuro oggetto del desiderio di grandi tycoon come Carlos Slim. Si alternarono, sopra quell’asset strategico, gli Agnelli, poi la c.d. razza padana, rimembrando Cefis e le sue gesta, di Colaninno e Gnutti. Si poteva governare l’asset strategico con uno zero virgola e un’opportuna incastellatura di holding, tutte quotate sulle spalle della nostra logorrea telefonica. Passò la Pirelli con le sue dismissioni immobiliari, arrivarono gli spagnoli, encefalogramma sempre piatto. Piani industriali regolarmente bocciati dalla Borsa, ritardo su 5G, sul Fibre to Cabinet, poi le intromissioni, sempre tardive e sempre burocratiche, della UE sui mercati a fallimento da portare in attivo con la leva dell’investimento privato, i winter packages sotto l’albero natalizio. 

La fine che ha fatto Alitalia, la fine che se va avanti così farà la RAI, tutte reminescenze di quella che, un po’ pomposamente, un po’ per non morire come Cio Cio San, veniva chiamata l’industria di Stato italiana. E la rete è sempre lì, dove era. Per sminare gli attacchi dei fondi, che non si occupano mai di futuro ma del passato che ha portato in agonia le vittime, bastava e ancora basterebbe un tratto di penna, fuori la rete dalle brame dei raider, dalle aspettative di superbonus di chi trappola con il bel giocattolino. Anche se, le confesso, vedere punita l’arroganza dei tanti che sono diventati milionari senza meriti, con stock option regalate da un mercato nato dal nulla, è una tentazione come direbbe Amleto, devoutly to be wished: vederli tornare a quelle sedie sghembe, a quelle panchine di tabulati buttati qua e là. Purtroppo, ne andiamo di mezzo anche noi. Quando in Italia saltano fuori le migliaia di famiglie in ambasce è sempre un brutto segno. La rete vada pure ad bagascias. Ah, l’antico desìo di tornare in un qualsiasi ente statale: una libidine che ci ha toccato tutti, almeno una volta. Anche chi vi scrive.

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