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Storie di caporalato digitale: full stack, mezza paga

Profili full stack senza un'adeguata retribuzione e tipologia di contratto: chi non accetta il caporalato digitale guarda all'estero

Come promesso, arriva una delle molte storie di caporalato digitale: la ricerca di profili full e l’offerta di paghe e condizioni lavorative tutt’altro che adeguate alle responsabilità della figura. Attenzione: con profilo full stack non ci si vuole limitare alla sola figura del developer, ovverosia lo sviluppatore che si occupa sia del back-end (in sintesi: il funzionamento lato server) che del front-end (in sintesi: l’interfaccia visibile dall’utente) di un sito o di un’applicazione. Facendo riferimento al termine per analogia si intende un profilo estremamente complesso e completo riguardante un determinato ambito. E qui possiamo avere, come spesso abbiamo: un legal specialist che si intenda di contrattualistica (nazionale ed internazionale), GDPR, 231; un marketer esperto in gestione progetti, social media management e analisi strategica; un graphic designer che sappia occuparsi di progetti di comunicazione, video editing e UI design. 

La ricerca di questi tipi di figure popola gli annunci di lavoro, con alcuni denominatori comuni negativi.

Un esempio: l’assenza di indicazione di RAL o della tipologia di contratto offerta. Il più delle volte consiste in un “iniziale rimborso spese” giustificato dal “doversi conoscere”, sorretto da niente più che uno stage o – nella maggior parte dei casi – da una proposta di collaborazione. Tale elemento si scontra con la richiesta di esperienza o di evidenze quali certificazioni, titoli o voti di laurea. E con la possibilità di contrattualizzare un periodo di prova, ovviamente.

Insomma: non si è disposti a pagare per una figura con molte hard skill, e questo è il peccato originale. Dopodiché, c’è una deriva piuttosto elementare e prevedibile: dal momento che costa così poco, perché doverla formare e coltivarla affinché si verticalizzi nelle proprie competenze? E così si assiste ad un elevato turnover, in parte provocato da condizioni di lavoro che non profilano orizzonti di crescita, e dall’altro dalla diffusa prassi di reimpiego in mansioni ben lungi dall’essere coerenti con il profilo e qualificanti per la persona.

Altro che la predica da boomer di dover fare sforzi per entrare nel mercato del lavoro. Qui siamo alla macelleria di quelle competenze e professioni digitali che invece si continua a raccontare di voler promuovere. Se il panorama digitale non ha confini ed oggi più che mai è possibile lavorare in modalità smart, per quale motivo un giovane si dovrebbe rassegnare a subire il giogo di un caporalato digitale quando ci sono più cose in cielo e terra di quelle che possono essere sognate in terra natìa? E se altrove si guarda, non lo si fa certo per esterofilia bensì per incontrare delle opportunità che qui sono percepite come irrealizzabili o altrimenti realizzabili solo per un novero molto ristretto di candidati.

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