CITTADINI & UTENTI

Medicina e privacy: relazioni (social) pericolose?

Il Garante si trova a replicare alle affermazioni mediatiche che stigmatizzano la privacy dei pazienti

Ricordate lo status relazionale di Facebook per cui si può dire di essere “in una relazione complicata”? Ebbene, così sembra che lo sia per medici e privacy. Non per tutti, beninteso, ma per quanti cercano le luci di una facile ribalta mediatica, salotti in cui nutrire il proprio (già) ipertrofico ego o semplicemente per improvvisarsi come webstars.

Parlano così di diritti e libertà fondamentali – fra cui la protezione dei dati personali – e allo stesso tempo blastano chi osa parlare di vaccini, cure o medicina senza averne le giuste competenze. Memoria di esercizio di un bispensiero orwelliano, celato dietro l’opportuna alternanza nel parlare talune volte come personaggio pubblico e talaltre come semplice cittadino. Eppure, essere under the public eye è un fatto, e rende il cittadino meno semplice per effetto di un’influenza che può ingenerare nella società. E da tale maggiore potere deriva (come insegna la Marvel e l’Uomo Ragno) responsabilità. Ma l’indicativo è forse troppo prescrittivo, e dunque occorre un più cauto deriverebbe che può ben essere puntualmente ignorato. O almeno: così sembra (o sembrerebbe?).

Da relazioni complicate, però, si sta giungendo a relazioni pericolose quando si parla di medicina e privacy. Pericolose perché si stanno affermando dei diritti tirannici, dimenticando quel principio di proporzionalità che contempera contrapposte esigenze sociali ed individuali. Pericolose perché ogni eventuale riserva o critica viene stigmatizzata. Pericolose perché il dibattito è così polarizzato da essere al margine del booleano: si ammette solo vero/falso e pro/contro. Dimenticando ad esempio studi di epistemologia e gran parte delle scienze umane e sociali, pericolosamente recessive di fronte alle scienze naturali.

Se ad esempio il Garante Privacy deve replicare ad “alcune affermazioni prive di fondamento di Guido Bertolaso, coordinatore della campagna vaccinale della Lombardia, secondo il quale la privacy limiterebbe la possibilità di chiamare e sollecitare gli assistiti alla somministrazione della terza dose di vaccino”, il problema di cultura sussiste ed è sotto gli occhi di tutti. Un mese prima la vicepresidente dell’Authority Cerrina Feroni era intervenuta richiamando un tweet di Burioni stigmatizzandone le “Affermazioni false, gravissime e irresponsabili, che denotano non solo l’ignoranza tecnica del tema evocato, ma un disprezzo inquietante e pericoloso per i fondamenti costituzionali del diritto alla protezione dei dati personali”. Ancor prima gli altri membri del Collegio, più volte, si sono espressi anche tramite canali social per chiarire.

Ma siamo sicuri che queste continue repliche dell’Authority e dei membri del Collegio contribuiscano ad una cultura della privacy? Citando Edward Snowden: Nobody needs to justify why they “need” a right: the burden of justification falls on the one seeking to infringe upon the right.

L’eco che inevitabilmente viene dato a talune affermazioni inesatte con il contrasto della precisazione contribuisce alla visibilità delle stesse. Suggerisco sul punto di ripassare la teoria della montagna di merda che appartiene al mitologico tempo dei blog, dei forum e dei grandi flame in cui il web neanche poteva sognare di ritrovarsi oggi alla sua versione 4.0. E come azione da intraprendere, adottare il buon vecchio adagio do not feed the troll.

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