
C’era una volta un Paese che credeva di essere un Paese – soprattutto un Paese che credeva.
Cento anni fa una mamma italiana, Maria Bergamas, che aveva avuto il figlio Antonio disperso in guerra, scelse tra una decina di altre bare quale dovesse rappresentare tutti i Caduti di un conflitto che solo da poco si era smesso di combattere.
Quella bara fu messa su un affusto di cannone, come si usava allora, caricata su un treno, e a bordo di quest’ultimo attraversò mezza Italia fino ad arrivare a Roma. Lungo tutto il tragitto, migliaia di persone l’aspettavano, e vi deposero tanti di quei fiori, che fu necessario aggiungere dei vagoni al treno per contenerli tutti.
Una volta a Roma, il feretro fu ricevuto dal re Vittorio Emanuele III, dal principe ereditario, dal Duca d’Aosta e da una folla strabocchevole, che lo accompagnò nel percorso dalla stazione Termini all’Altare della Patria, dove trovò il suo ultimo riposo. Ancora oggi, davanti al suo sacello arde una fiamma che non viene mai spenta, e soldati di tutte le armi vi montano la guardia a turno, ininterrottamente da cent’anni.
Dopo quel momento di commossa concordia nazionale, tutto è scivolato sui binari di prima. La lotta tra socialisti e liberali prima, poi quella tra socialisti e fascisti che ha caratterizzato il Biennio Rosso ha portato all’avvento del Fascismo. E quest’ultimo, con i suoi sogni di grandezza, ha trascinato il Paese in una nuova, più disastrosa Guerra mondiale, dalla quale un pezzo della nostra identità è uscita distrutta.
Il secondo dopoguerra ha visto il riaccendersi delle lotte politiche, questa volta principalmente tra cattolici e comunisti, e la comparsa di estremismi armati di destra e di sinistra, i quali si sono scontrati nelle strade in una nuova lotta fratricida.
Il crollo del muro di Berlino e dell’Unione Sovietica ha determinato la fine del ruolo dell’Italia come paese di frontiera della NATO, lo spegnersi delle passioni politiche di grande respiro, ed il ripiegarsi su baruffe chiozzotte nostrane, divisi tra chi ha predicato un edonismo le cui conseguenze hanno distrutto la generazione giovane di oggi; movimenti improvvisati ed incompetenti; e biechi propagatori di odio, dimentichi di quando uomini di tutte le parti d’Italia accorsero ad evitare che diventassero austriaci dopo Caporetto.
Ora siamo un Paese placido, addormentato, gerontocratico, avverso al cambiamento quanto il Fantozzi avvolto nella sua vestaglia di lana, il cui solo interesse è la frittatona di cipolle, la familiare di birra gelata, il tifo indiavolato per la squadra di calcio, e il rutto libero su Facebook. Un Paese dove un ministro della Repubblica nato nel 1950 mostra il distacco della sua generazione dal mondo moderno imponendo ai dipendenti pubblici di ritornare all’inferno di traffico, inquinamento, routine e conseguente pochezza intellettuale e spirituale di prima della pandemia. Forse lui tra una decina d’anni non ci sarà più a vedere le conseguenze della sua miopia, ed il prezzo sarà pagato – come la sua generazione egoista ha da tempo deciso – da quelli che vengono dopo.
E allora viene da pensare a lui, al fante ignoto raccolto alle foci del Timavo, le cui mostrine recavano pallide tracce d’azzurro. E a tutti quelli come lui, che solo un secolo fa sacrificarono tutto per rendere possibile l’Italia di oggi. Quelli che a vent’anni passarono la giovinezza non tra pigri studi e spritz con gli amici, ma correndo in mezzo a pallottole e schegge di granata, verso la trincea nemica. E non furono solo i richiamati, a combattere quella guerra, ma anche trecentocinquantamila volontari, che accorsero da tutte le parti del mondo per dare una mano.
Lo avessero saputo, tutti quei ragazzi, che solo un secolo dopo i loro sacrifici, sarebbero stati tutti dimenticati. Lo avessero saputo, che la celebrazione del loro sacrificio sarebbe stata ricordata da pochi – quelli che appartengono da sempre ad un’altra Patria, e credono negli eroi – mentre la grande massa dei cittadini e dei loro rappresentanti sarebbero rimasti a casa, a guardare inebetiti gli schermi ipnotici, un po’ sbronzi e con un vago sapore di cipolla in bocca.
Un eroico quattro novembre che si trasforma in un ingrato quatto novembre, con il treno ed il feretro che riposano solitari sotto una pioggerella disinteressata, nella quale tutti quei momenti andranno perduti.
Per un Paese dimentico, tempo di morire.