
Con l’approvazione da parte de Senato del DDL della Riforma Cartabia riguardante la “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”, a tutti gli esperti di protezione dei dati personali è saltato all’occhio il comma 25 dell’art. 1 secondo cui “Nell’esercizio della delega di cui al comma 1, i decreti legislativi recanti modifiche alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, in materia di comunicazione della sentenza sono adottati nel rispetto del seguente principio e criterio direttivo: prevedere che il decreto di archiviazione e la sentenza di non luogo a procedere o di assoluzione costituiscano titolo per l’emissione di un provvedimento di deindicizzazione che, nel rispetto della normativa dell’Unione europea in materia di dati personali, garantisca in modo effettivo il diritto all’oblio degli indagati o imputati.”.
Insomma: sembra più una dichiarazione di principio che veste l’apparenza di una maggiore garanzia nei confronti di imputati e condannati. Così non è, dal momento che nella migliore delle ipotesi rimarrà solo un’ombra da contemplare sulla caverna platonica delle intenzioni e dell’inefficacia, mentre nella peggiore andrà a restringere la portata dell’esercizio del diritto di oblio da parte dell’interessato ai sensi dell’art. 17 GDPR.
Se prima della riforma il presupposto della deindicizzazione è solo l’inattualità della notizia non più rispondente a soddisfare esigenze di informazione, secondo un giudizio di proporzionalità, cosa ci si deve aspettare ora? Che sarà forse introdotto un nuovo tassativo requisito dell’archiviazione, della sentenza di non luogo a procedere o di assoluzione? In questo modo sarebbe esclusa ogni deindicizzazione per chi, pur condannato, ha ad esempio visto trascorrere sufficiente tempo per la riabilitazione, o altrimenti chi ha avuto la revoca di un provvedimento cautelare o precautelare. Come potrebbe giovare ciò alla tutela dei diritti e delle libertà dell’interessato a non vedersi più attribuire – tramite una ricerca internet – dei fatti risalenti nel tempo e appartenenti ad una sua “vecchia vita”?
Non si comprende quali intenti di giustizia riparativa possa perseguire l’introduzione di requisiti ulteriori per ottenere un diritto che l’interessato già ora può esercitare. Pur ragionando in astratto non si riesce ad individuare come in questo modo un indagato o imputato (o anche: suoi parenti o eredi) possa essere protetto dal subire l’impatto negativo e spesso sproporzionato della permanenza online di quelle narrazioni di cronaca giudiziaria che tanto enfatizzano la fase di indagini o un rinvio a giudizio e spesso tacciono sulle sorti dei procedimenti.
Un ulteriore dubbio sorge poi con riguardo al criterio temporale indirettamente indicato per cui occorrerà attendere la definitività del provvedimento a favore dell’imputato. Salta all’occhio anche l’assenza di alcun riferimento all’orientamento consolidato per cui il diritto di oblio esercitabile da parte di un soggetto pubblico trova delle limitazioni.
Tornando alla metafora di platonica memoria, sembra che gli intenti della riforma vogliano guardare solo alle ombre di un’idea perdendo ogni nesso con il mondo delle tutele effettive cui il diritto di oblio provvede e che richiede un necessario riferimento al contesto anziché cataloghi preconfezionati e inefficaci.