
Con l’esplosione della pandemia di COVID-19 la conseguente virtualizzazione del lavoro ha avuto molte ricadute positive ed alcune negative.
Abbiamo più volte discusso di come l’ambiente terrestre, nonché la vita individuale e sociale, abbiano tratto enormi benefici dalla virtuale eliminazione per quasi due anni del fenomeno del commuting. Emissioni dovute al traffico automobilistico annullate per oltre un anno, stress associato agli spostamenti ridotto a zero, riscoperta delle radici familiari entro le quali la nostra esistenza deve essere inscritta per conseguire una più equilibrata vita personale.
Le ormai familiari visioni di cani, gatti, e bambini che irrompono senza preavviso nelle call di lavoro non sono più un imbarazzante intermezzo da giustificare agli occhi dei colleghi con cui stiamo parlando, ma parte di un perfettamente accettabile modello di vita in cui queste cose succedono senza dare scandalo. Siamo inoltre più o meno tutti abituati a sedere di fronte alla scrivania di casa vestiti di tutto punto dalla cintura in su, e coperti da forme di abbigliamento vario e comodo dalla cintura in giù. Probabilmente non c’è stata nessun’altra epoca della storia in cui si siano consumate meno scarpe, e contemporaneamente la pantofola o la ciabatta siano diventate le calzature standard.
Si verificano, con l’allentarsi delle restrizioni, anche alcuni fenomeni simpatici che avremmo considerato impensabili fino a qualche tempo fa. Innanzitutto, l’andare episodicamente in ufficio diventa un piacere e non una quotidiana, fantozziana lotta contro il traffico, i mezzi pubblici in ritardo e sovraffollati, ed il tempo che non basta mai.
Riabbracciare i colleghi con cui si è lavorato prima della pandemia diventa un’occasione di festa ed insieme una sferzata di motivazione. Si conoscono di persona anche i nuovi colleghi, quelli assunti nel corso della pandemia, e dei quali avevamo solamente un’immagine bidimensionale, ristretta gli angusti confini dello schermo e degli sfondi di Teams e Zoom. Viviamo magari momenti di meraviglia quando scopriamo che il collega che ci immaginavamo basso e tarchiato a causa magari di una posizione ingobbita sulla sedia da lavoro virgola in realtà è alto e slanciato.
Accanto agli aspetti positivi, tuttavia, si sono manifestati tutta una serie di fenomeni negativi riguardanti la nostra gestione del tempo. Con tutte le discussioni ridotte a slot di un’ora, è diventato ormai uno standard essere in call dalle prime ore del mattino fino a pranzo, e dal primo pomeriggio fino ad un orario imprecisato della sera. La soluzione di continuità tra l’una e l’altra cosa da fare, e specialmente i fisiologici momenti di pausa che spendevamo magari in una chiacchierata davanti a un caffè sono diventati difficili, se non impossibili. Lo stress è certamente aumentato in relazione al fatto che tutto è accelerato e senza soste. Il rischio di burnout diventa una realtà sempre più presente in assenza di correttivi.
Alcune aziende stanno cercando di arginare il fenomeno istituendo no meeting areas, corrispondenti normalmente all’ora di pranzo, per introdurre momenti di pausa che consentono ai propri dipendenti di recuperare. Altre hanno introdotto come norma quella di limitare le riunioni a 45 o 50 minuti, in modo da consentire delle pause scaglionate tra una call e l’altra.
Al di là di quanto meritoriamente stanno facendo queste organizzazioni, probabilmente il nuovo modo di lavorare richiede agli stessi lavoratori di farsi parte protagonista di un modello che gli consenta di svolgere le proprie funzioni nel rispetto della propria salute.
In un articolo pubblicato su Science, il ricercatore statunitense di origine cinese Mingde Zhang analizza il problema partendo dalla propria esperienza personale. In quanto immigrato senza legami familiari o sociali in loco, da studente di dottorato ha sviluppato l’abitudine di dire sempre di sì a qualunque richiesta di aiuto gli venisse dai colleghi, nel tentativo di guadagnare il proprio posto non solo all’interno dell’organizzazione in cui lavorava, ma anche nella società americana.
Questo atteggiamento, che ha poi riportato per molti anni anche sul lavoro quando dall’università si è trasferito in un’azienda privata, lo ha portato a passare moltissimo tempo ad aiutare gli altri a raggiungere i propri obiettivi, rimanendo magari indietro sulle proprie deadlines e ricevendo perciò valutazioni non positive da parte dei propri manager. Peggio ancora, si ritrovava ad essere costantemente stracarico di cose da fare, con effetti negativi sulla sua salute e sul suo ambiente familiare.
Il momento di discontinuità nella sua esperienza è stato la nascita del suo primo figlio, il quale è venuto alla luce mentre egli, imprigionato nella consueta gabbia di sì, digitava furiosamente sul computer un report da presentare al lavoro.
Secondo la sua esperienza, imparare a dire no è l’unico modo per evitare ai ladri di tempo di approfittare della naturale predisposizione ad aiutare il nostro prossimo; ed è anche il fattore principale che ci consente di vivere un’esistenza che sia un giusto bilanciamento tra il nostro essere persone e il nostro essere lavoratori.
Nel nuovo e meraviglioso mondo del lavoro digitale, pianificare i momenti di scarico; determinare in anticipo il limite orario della propria giornata; trattare le eventuali eccezioni come appunto eccezioni e non come il modo normale di operare e in ultima analisi l’imperativo che come individui e come organizzazioni dovremmo porci.