
Avevamo accennato al fenomeno delle gogne mediatiche che vengono promosse da alcuni influencer. Lo schema ricorrente è noto: esposizione pubblica di un malcapitato (spesso: di un suo post o messaggio), sfruttamento dell’effetto framing, conseguente shitstorm da parte dei follower. In pratica si tratta di un’azione di giustizia (rectius: vendetta) privata al retrogusto di cyberbullismo. La conseguenza è una vera e propria demolizione dell’immagine social dell’imprudente malcapitato, il quale subisce impatti reputazionali estremamente rilevanti anche al di fuori del mondo digitale.
Tutto funziona grazie allo studio e allo sfruttamento delle dinamiche dei social. L’influencer, volendo attuare una strategia di engagement, inizia ad intervenire all’interno di un dibattito fortemente polarizzato preparando così un’esca. In alcuni casi, può essere addirittura lo stesso influencer a generare polarizzazioni avvalendosi di una presa di posizione particolarmente divisiva. Ad esempio, insultando o andando a dileggiare determinate categorie di persone con l’attenzione di evitare di incorrere in hate speech o diffamazione, ovviamente.
Più dell’idea, quel che conta è l’azione di baiting. Qualora sia sufficientemente efficace, sarà infatti in grado di attrarre posizioni contrarie e – in modo conseguenziale – anche alcuni haters ovverosia quegli odiatori che tipicamente popolano gli utenti dei social network e poco spesso seguono regole di netiquette o continenza per esprimere critiche o disappunto.
Tenuto conto del contesto dei social network, è pertanto solo questione di tempo prima che i toni si arroventino e uno o più di questi haters inizi ad utilizzare parole inappropriate o finanche minacce all’interno di post o comunicazioni private. E qui, anziché perseguire una via legale presentando una querela e informando le competenti autorità giudiziarie, scatta la trappola: il singolo messaggio e il suo autore sono esposti tramite screenshot e accompagnati da uno strumentale j’accuse dell’influencer che circostanzia il tutto al fine di rappresentarsi come vittima di un odiatore particolarmente pericoloso. Alcuni addirittura svolgono delle operazioni di OSINT per esporre anche altri profili e informazioni personali dell’autore del messaggio.
Sfruttando così l’effetto framing scatta la logica conseguenza ovverosia la shitstorm. I follower si scagliano contro il condannato alla gogna mediatica, con tutte le conseguenze del caso. Il tutto al di fuori di ogni controllo e garanzia di legalità, in ossequio a quella che è esibita pubblicamente come una giustizia privata.
Vero: chi sbaglia paga. Ma ciò deve avvenire – ed è auspicabile che avvenga – secondo giustizia, e non per vendetta. Men che meno poi per essere parte di una strategia di engagement. E sia ben chiaro: sebbene il comportamento sia inopportuno, maleducato o finanche criminale ove se ne ravvisino gli estremi da parte dell’autorità giudiziaria, l’autore del post o del massaggio che finisce in questo ingranaggio è sempre una vittima sacrificale per alimentare l’engagement dell’influencer. Il costo? Sproporzionato. Danno alla reputazione individuale, ma in alcuni casi si viene costretti a formulare delle scuse pubbliche e in altri si rischia addirittura la perdita del lavoro o di subire altri impatti sulla vita personale.
Ma se già i tribunali privati dei colossi social non ci sembrano rassicuranti, come possiamo accettare questi esercizi di giustizia arbitraria e furor di popolo digitale? Senza dimenticarci che il movente non è affatto rendere i social un luogo migliore, ma voler ottenere qualche like e visualizzazione extra.