
Alcune diciture presenti sulle confezioni dei prodotti acquistati nei supermercati come “Senza conservanti e coloranti”, “Senza grassi idrogenati”, “Senza olio di palma” sembrano essere diventate una necessità per le aziende produttrici. Ciò non deriva da reali obblighi di legge, i quali come è noto vengono predisposti per segnalare la presenza e non l’assenza di ingredienti, quanto piuttosto dalla volontà di tranquillizzare i consumatori più preoccupati.
A tali descrizioni, prettamente riguardanti il contenuto del prodotto acquistato, se ne sono aggiunte nel tempo diverse altre dedicate alla sostenibilità ambientale del prodotto. È infatti frequente trovare scritto “Da energia 100% rinnovabile” oppure “Confezione interamente riciclabile”, col chiaro intento delle aziende di conquistare una precisa fetta di mercato in grande espansione. Agli inquieti consumatori cui sono rivolti questi messaggi, non resta altro che finire di leggere questo articolo per avere un’altra voce da spulciare nelle già prolisse descrizioni impresse sulle confezioni.
Parliamo degli ftalati. Quelli di tipo Low-molecular weight (LMW) sono aggiunti frequentemente negli shampoo, nelle lozioni e nei prodotti per la cura della persona. Gli High-molecular weight (HMW) sono invece diffusamente utilizzati per la produzione di plastiche per impacchettare alimenti.
L’ampio uso che l’industria fa degli ftalati rende la presenza dei metaboliti (prodotti nel processo metabolico) derivanti da queste sostanze regolare e sistematica, come dimostrato da uno studio di recentissima pubblicazione del dott. Trasande e altri.
La letteratura scientifica sugli effetti degli ftalati, fatta di studi di laboratorio e derivanti da sperimentazione animale, aveva già da tempo evidenziato una loro correlazione con l’obesità, il diabete, malattie cardiovascolari oltre che con il cancro al seno e alla tiroide. Nel 2015, ad esempio, un gruppo di esperti ha constatato una probabilità tra il 40% e il 69% che gli ftalati potessero contribuire alla mortalità cardiovascolare, attraverso una riduzione del livello di testosterone negli uomini adulti. Purtuttavia, il nesso di causalità tra l’esposizione agli ftalati e l’incremento di mortalità non è stato ancora valutato in maniera sistematica.
Nell’articolo del dott. Trasande vengono analizzati dati relativi ad una popolazione di oltre 5mila individui statunitensi di età media pari a 56.6 anni per stabilire una relazione tra gli ftalati trovati nelle urine e tutte le cause di mortalità sopra riportate. I risultati presentati incrementano – rispetto a quella precedentemente stimata – la probabilità che gli ftalati possano contribuire alla mortalità da malattie cardiovascolari, sia negli uomini che nelle donne.
Lo studio riporta anche una stima, oscillante tra 40 e 47 miliardi di dollari all’anno, delle perdite economiche in termini di calo di produttività causate dalla mortalità associata agli ftalati.
Alla luce di questi dati, allarmanti sia dal punto di vista sanitario che da quello economico, viene dunque suggerita l’opportunità di limitare o eliminare le contaminazioni da ftalati, a partire da quelle che si determinano negli alimenti.
Approfondimenti scientifici come questo, o un’improvvisa impennata di pubblica consapevolezza, potranno determinare tra breve delle prese di posizioni restrittive o di divieto. Al momento però gli enti regolatori stanno agendo in ordine piuttosto sparso sul tema. USA, Canada, Israele, Brasile, Cina e Australia hanno già ristretto o vietato l’uso di alcuni ftalati come il DEHP, il DBP e il BBP nei giocattoli, ma sono ancora – o del tutto assenti – le limitazioni per gli ftalati a contatto col cibo.