
La saga della Fondazione di Isaac Asimov è probabilmente da annoverarsi tra i capolavori assoluti dello scrittore russo-statunitense, e della fantascienza in generale.
Ispirato da Declino e caduta dell’impero romano di Edward Gibbon, il grande affresco asimoviano narra la storia di un futuro lontanissimo, in cui l’intera galassia è unificata sotto il dominio di un unico Impero Galattico. Al massimo del proprio splendore, dominato da una stirpe plurisecolare di sovrani assoluti, l’Impero viene improvvisamente perturbato dalle teorie di Hari Seldon, un professore universitario di matematica e padre della scienza della Psicostoria.
L’assunto centrale delle ricerche di Seldon è che dato un numero sufficientemente grande di individui, questi si comportano in maniera prevedibile secondo leggi descritte da complesse equazioni matematiche. Sulla base delle proprie ricerche, Seldon conclude che l’Impero è sul punto di crollare, e che le conseguenze nefaste di tale implosione devasteranno la storia umana per un periodo di quarantamila anni. Di conseguenza, lo scienziato chiede di ottenere le risorse necessarie a costruire una Fondazione che abbia il compito di preservare tutta la conoscenza umana, e che al momento del crollo sia in grado di ridurre il periodo di oscurantismo dai previsti quarantamila, a solo mille anni.
È l’inizio di una delle più grandiose narrazioni fantascientifiche di tutti i tempi, fondamentale per l’educazione sentimentale e di pensiero di generazioni di appassionati. Oltre allo stesso Hari Seldon, sul grande palcoscenico della galassia si muovono figure come Gaal Dornick, Golan Trevize, Salvor Hardin e il Mulo, in una fantasmagoria di colpi di scena e trovate cerebrali che costituiscono la gioia e la passione di tutti quanti nel tempo hanno letto i libri e se ne sono lasciati ispirare.
Comprensibilmente, la notizia che Apple+ aveva messo in cantiere una trasposizione televisiva del Ciclo della Fondazione è stata salutata dalla comunità della fantascienza con un misto di speranzosa anticipazione, ed insieme di paura. Il rischio che sempre si corre quando si mettono le mani su narrazioni tanto iconiche è quello di devastare quel delicato territorio che esiste tra la penna dello scrittore e l’anima del lettore. Specie in tempi come questi, in cui in maniera crescente la necessità di mantenere la coerenza ideologica del politically correct fa sentire legittimati autori televisivi e cineasti a reinterpretare canoni che non hanno alcun bisogno di essere reinterpretati.
In tempi recenti abbiamo avuto numerosi esempi di questo tipo, a partire ad esempio dalla devastazione dell’universo Marvel. Gli occhi attoniti degli appassionati hanno visto comparire un Thor al femminile e una francamente ridicola Capitan Marvel, una specie di onnipotente supereroina che del leggendario Capitan America conserva il nome e l’aspetto generale; ma che dopo cinque minuti appare al pubblico come l’archetipo della Mary Sue, un termine che identifica personaggi tanto inverosimilmente superiori a sodali ed avversari, da rendere praticamente impossibile qualunque confronto. Per una Mary Sue non c’è nemico, né situazione impossibile da cui non si possa uscire in scioltezza; ed il solo compito degli eventuali alleati è quello di applaudire trasognati alle sue imprese.
Un altro tristemente famigerato esempio di Mary Sue è lo stucchevole personaggio di Michael Burnham, la quasi-messianica protagonista di Star Trek Discovery, quella che senza dubbio alcuno è la più brutta, forzata, inverosimile, stucchevole declinazione di una volta glorioso franchise, che ha ispirato generazioni di ragazzi e ragazze ad intraprendere carriere in ambito scientifico. Per non parlare dei guasti prodotti nella dimenticabile Star Trek Picard, dove in nome del politicamente corretto si attribuisce al personaggio di Sette di Nove un’identità LGBT che mai ha avuto nel corso della sua splendida storia in Star Trek Voyager – e ancora aspettiamo di capire cosa ci faccia lei insieme a personaggi provenienti da Star Trek – The Next Generation. Un ulteriore esempio di decostruzione di un personaggio tradizionalmente maschile in nome di talune norme ideologiche moderne è quello di Doctor Who, che si è voluto trasformare in un’altra Mary Sue, suscitando le ire di legioni di fan ultradecennali – e costringendo la BBC ad una precipitosa retromarcia dopo due sole stagioni.
Insomma, vista l’aria che tira da alcuni anni, i fan della Fondazione avevano ben ragione ad essere preoccupati – e infatti. Diciamolo subito, il prodotto di Apple+ è di altissima qualità da un punto di vista visivo. La CGI viene utilizzata a tutta potenza e con un certo gusto, ricostruendo ambientazioni tanto spettacolari quanto verosimili. Differentemente da quanto accaduto con alcune delle saghe di sopra citate – cari Alex Kurzman e complici, non vi perdonerò mai per la devastazione di Star Trek – i dialoghi sono ben scritti e credibili, e contribuiscono a dare quella profondità psicologica ai personaggi necessaria perché siano credibili e memorabili.
Tuttavia, si rimane agghiacciati nello scoprire che Gaal Dornick, il matematico primo allievo di Hari Seldon si è trasformato da severo, rude e brillante studioso di provincia, pieno di forza mentale quanto di idiosincrasie culturali, in una ragazzina che scappa da una specie di comunità religiosa di cui nei libri non c’è traccia. Uguale destino colpisce Eto Demerzel che altri non è che il robot umanoide Daneel Olivaw del Ciclo dei Robot dello stesso Asimov, il quale si trasforma anch’egli in un’algida consigliera dell’imperatore, senza alcuno dei caratteri che lo rendono così riconoscibile ed iconico.
E prima che la discussione si trasformi in qualcosa di simile al lancio di banane tra scimpanzé, va precisata una cosa: la questione non è avere personaggi femminili come protagonisti di narrazioni fantastiche. La storia del genere fantastico e fantascientifico è piena di personaggi femminili che hanno segnato un’epoca, scavando un solco incancellabile nell’immaginario di generazioni di appassionati.
La straordinaria Ellen Ripley di Alien, interpretata da un’iconica Sigourney Weaver, era un concentrato di credibilità. Una persona senza straordinarie doti fisiche o poteri particolari, che combatteva un nemico strapotente e letale spesso più con l’astuzia, che con la forza. Durante tutto il film si aveva la costante sensazione che le cose avrebbero potuto andar male e la vicenda chiudersi in tragedia, ed il tutto manteneva perciò un elevato livello di verosimiglianza e tensione emotiva.
E come non ricordare il personaggio di Sarah Connor nel leggendario Terminator, ancora una volta una persona normale proiettata al centro di forze più grandi di lei, e che trovava la forza interiore per combattere un avversario inarrestabile ed invincibile, mettendo in opera un processo di evoluzione della propria personalità che la porterà ad accettare il ruolo di salvatrice del futuro.
Il nocciolo della questione è invece la decostruzione dei personaggi dell’immaginario collettivo – e per estensione dei miti culturali e storici – che costituiscono l’intelaiatura del nostro fantastico e della nostra società. Gli archetipi narrativi, gli eroi dei fumetti o del cinema, i grandi del passato, sono modelli da prendere come riferimento per la risoluzione di situazioni della realtà moderna. L’umanità comune non sarà mai dotata della potenza divina di Thor o dell’indefettibile lealtà di Capitan America, ma di fronte alle sfide della realtà può trovare conforto ed ispirazione in quelle figure, ed usare le proprie buone caratteristiche per superarle. Ogni volta che decostruiamo un mito, sia esso un personaggio immaginario o una figura storica ispiratrice, rinunciamo ad un pezzo di coraggio, ad un pezzo di intelligenza, ad un pezzo di abnegazione. E quando avremo distrutto tutti i miti, come taluni ideologi vorrebbero, rimarrà di noi solo la parte disorientata e sola, imbelle e paurosa, di cui chiunque potrà fare ciò che vuole.
La manipolazione del nostro immaginario può sembrare – e viene presentata – come una campagna di inclusione, ma ciò è falso. Per includere gli esclusi di qualunque tipo, non ha senso distruggere i miti esistenti e trasformarli in modo che questi ultimi possano sentirli come propri. Vanno invece costruiti nuovi miti, nuovi personaggi, che partano dall’identità profonda degli esclusi, ed attraverso il processo di lotta che precede qualunque evoluzione, renderli dei nuovi archetipi che possano ispirarli a partecipare senza rivendicazionismi o rancori al progresso della società civile, dove l’uguaglianza non sia standardizzazione destruente, ma uguaglianza di opportunità per tutti.