CITTADINI & UTENTI

Cosa succede al pensiero critico?

Ondate di fondamentalismo ideologico si sono abbattute ripetutamente negli ultimi anni sulla nostra società occidentale. È lecito pensare che i social media, a causa dei propri semplicistici flussi di interazione, abbiano spinto verso una sempre maggiore polarizzazione, fino alla totale incomunicabilità.

La civiltà occidentale come la conosciamo poggia le sue basi sullo sviluppo del pensiero critico.

Esso è la forma più alta di libertà all’interno di una società, e di evoluzione della società stessa. Dove è un assioma dell’organizzazione sociale, infatti, è impossibile creare sistemi totalitari, che inerentemente prevedono l’adesione dell’intera popolazione ad un sistema di idee reso obbligatorio per legge. La soppressione del pensiero critico è alla base di qualunque forma di dittatura politica o religiosa, e non abbiamo bisogno di fare l’elenco degli orrori che hanno piagato il mondo negli ultimi secoli per averne immediata percezione. È attraverso il pensiero critico che rielaboriamo le vicende del passato, ne individuiamo gli errori, e ne prendiamo spunto per non commetterli più.

Da un punto di vista evolutivo, inoltre, lo sviluppo del pensiero critico è alla base dello stesso concetto di progresso. La ricerca scientifica poggia le sue fondamenta sul principio della dimostrazione, piuttosto che su quello totalitario di autorità. Senza pensiero critico è ad esempio impossibile riconoscere le falle di un sistema tecnologico o di una proposizione scientifica; e tanto meno si può evolverla verso una nuova e più perfezionata tecnologia, o verso un più compiuto modello di comprensione del reale.

Le conseguenze dell’assenza di pensiero critico sono ben conosciute da parte degli scienziati sociali. Le comunità in cui esso è assente o represso tendono a stagnare e a rinchiudersi in ristretti confini di convincimento, nei quali si attiva un malsano ciclo a retroazione che tende a spingere tutti gli appartenenti verso il fanatismo o il conformismo. Il cosiddetto groupthink, ben caratterizzato dagli studiosi di discipline organizzative, è ad esempio uno dei più importanti fattori di irrigidimento e perdita di adattabilità delle aziende nei confronti del proprio ambiente competitivo. Del pari, i sistemi tecnologici ed economici che vengono immobilizzati dall’assenza di stimoli critici o di scambio con l’esterno tendono a smettere di evolvere, e vanno incontro a bruschi risvegli una volta che le condizioni di permeabilità agli stimoli vengano ripristinate.

Da tutto quanto sopra discusso, dovrebbe essere evidente a qualunque persona consapevole che la chiusura verso l’esterno, la soppressione delle idee non conformi, la persecuzione morale, fisica e sociale di coloro che tentano di stimolare lo sviluppo del pensiero critico nella società in generale, e nelle giovani generazioni in particolare, dovrebbero essere viste con la più grande preoccupazione.

Negli ultimi anni, diverse ondate di fondamentalismo ideologico hanno colpito la società occidentale, che forse credeva di essere stata vaccinata per sempre contro tali rischi dalla combinazione delle varie oppressioni religiose e sociali che ne hanno piagato la storia specie nel XX secolo. Quali siano le cause di tale fenomeno è certamente un oggetto di studio per i sociologi. Tuttavia, esistono a nostro parere indicazioni del fatto che i Social Media possano esserne un motore importante. Le ricerche condotte fino a questo momento in materia, e probabilmente la nostra esperienza individuale, mostrano che le piattaforme di Social Media tengono a spingere, a causa dei propri semplicistici flussi di interazione, le diverse audience che discutono su un argomento verso una sempre maggiore polarizzazione, fino alla totale incomunicabilità. Tutto funziona infatti non secondo la logica fuzzy che è la base di qualunque percezione o interazione umana, ma secondo un binario e totalitaristico sistema di like o dislike.

La loro doppia natura di principale mezzo di interazione moderna, e contemporaneamente di creazione delle opinioni, rende quindi i Social Media un brodo di coltura ideale per convinzioni totalitarie, chiuse a qualunque discussione esterna. Gli individui che sviluppano tali idee tendono, in coerenza con qualunque esempio fideistico ed anticritico del passato, a identificare i portatori di idee differenti, e i propugnatori della libera discussione, non solo come diversi, ma come nemici. E, coerentemente a qualunque altra parola d’ordine totalitaria, da Deus vult a Über alles, sviluppano presto come imperativo categorico quello della soppressione dell’avversario.

I docenti universitari sono uno degli obiettivi principali di questa nuova ideologia totalitaria, in maniera minore i cultori delle scienze esatte – anche se l’ondata di pseudoscienza connessa alla pandemia di COVID non manca di far sentire i propri effetti – ma soprattutto i docenti di psicologia, sociologia e filosofia. Chi opera in questi campi di studio, infatti, costruisce l’architettura per la comprensione del nostro modo di ragionare, e per la sua applicazione a tutti gli ambiti del pensiero individuale e sociale. Un gruppo totalitario che riesca a modificare tale architettura coerentemente alle proprie idee, ridefinisce di fatto le mappe del significato che danno forma al nostro pensiero.

Un esempio che ha avuto risonanza mondiale è stato quello dello psicologo clinico canadese Jordan Peterson, docente presso la Toronto University, il quale è stato a lungo messo in discussione dal proprio senato accademico, per il proprio rifiuto – e la sua battaglia politica – a conformarsi a forme di insegnamento politicamente corretto che escludessero la discussione di aspetti controversi di talune teorie e lo obbligassero a forme di compelled speech. Oltre a ciò, Peterson è stato oggetto di sempre più rumorose contestazioni da parte di soggetti radicali intenzionati a impedirgli di esprimere liberamente le proprie idee e sottoporle alla pubblica discussione. Un caso analogo e più serio è stato quello di Lindsay Shepherd, assistente presso la Wilfrid Laurier University, la quale è stata costretta a lasciare la propria posizione a causa delle contestazioni susseguenti l’aver usato a lezione – senza prendere posizione e con l’intento di stimolare il dibattito in aula – un filmato della televisione pubblica canadese in cui Peterson discuteva le proprie idee.

L’ultimo esempio di questa montante ondata di intolleranza nei confronti del pensiero critico sembra essere quello delle dimissioni del filosofo e pedagogo Peter Boghossian, docente presso la Portland State University. In passato, Boghossian ha effettuato esperimenti nei confronti di una serie di riviste accademiche, tra cui alcune dedicate agli studi di genere, cui ha inviato una serie di articoli falsi, addirittura citanti passi del Mein kampf. Dopo che una ventina di essi erano stati accettati, egli ha rivelato l’esperimento e le sue finalità, non dissimili dalle dinamiche che abbiamo esplorato in un altro articolo. Di conseguenza, si è guadagnato l’odio di determinati gruppi di Social Justice Warriors all’interno dell’università, che lo hanno perseguitato verbalmente e persino assaltato fisicamente. In una lettera aperta pubblicata l’8 settembre scorso, Boghossian ha annunciato le sue dimissioni dopo che, secondo lui, più parlav(a) contro l’illiberalismo che ha inghiottito la Portland State University, più ritorsioni affrontav(a).

Al di là dei casi singoli, e della loro valenza, va notata con forte preoccupazione una tendenza – in atto per la verità anche in altri ambiti di costruzione culturale e della pubblica opinione – nel combattere non tanto le idee, ma il diritto di esprimerle e di esercitare su di esse lo spirito critico individuale che è alla base della nostra civiltà. Una tendenza alla tribalizzazione e medievalizzazione della società che non può avere altro che conseguenze funeste, e che va combattuta in ogni modo.

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