
L’abbandono dell’Afghanistan da parte delle forze occidentali e la travolgente avanzata dei talebani sono l’argomento di punta di questi giorni.
Venti anni di presenza in quel tormentato paese, iniziati con la caccia a Osama Bin Laden dopo l’attentato alle Torri Gemelle, non hanno evidentemente sortito effetti apprezzabili nelle convinzioni del popolo afghano, il quale si ritrova esattamente nella situazione di due decenni fa.
Le immagini che maggiormente rimangono negli occhi sono in primo luogo quelle dei poveri corpi che precipitano dopo aver tentato di fuggire aggrappandosi follemente all’esterno di un aereo da trasporto: un parallelo talmente inquietante con gli analoghi, tragici voli dalle Twin Towers, che neanche un regista cinematografico avrebbe potuto concepirlo.
Hanno colpito la memoria collettiva anche altre immagini, quelle dell’abbandono dell’ambasciata americana con gli elicotteri, assolutamente analoghe ad un altro abbandono: quello della residenza diplomatica statunitense a Saigon, al termine della guerra del Vietnam.
Una riflessione sulle analogie esistenti tra le due guerre è stata portata alla pubblica attenzione dallo storico Giovanni Cecini, che in un suo filmato ha ripercorso in chiave critica le riflessioni di un protagonista della guerra in Vietnam: il Segretario di Stato americano Robert McNamara, che ha servito sotto i presidenti Kennedy e Johnson. Propugnatore della dottrina di intervento flessibile, corresponsabile politico delle modalità operative in Vietnam, McNamara nel 1996 scrisse poi un elenco di undici punti, che racchiude le lezioni che il proprio paese avrebbe dovuto imparare dal conflitto vietnamita. Riflessioni che sembrano largamente condivisibili ed applicabili anche oggi, e che dovrebbero spingere ad un ripensamento generale della strategia geopolitica dell’Occidente.
A partire dalla Prima Guerra Mondiale, e in particolare dopo la Seconda, gli Stati Uniti si sono giustamente affermati come il paese leader dell’Occidente, grazie alla propria forza militare ed economica. Non c’è alcun dubbio che tale ruolo possa e debba essere ancora esercitato, di conserva con una più coesa dottrina geopolitica europea. Ma del pari, gli eventi degli ultimi ottant’anni consiglierebbero forse un ripensamento più ampio ed organico del posto dell’Occidente nel mondo, soprattutto alla luce delle mutevoli realtà del mondo islamico, cinese e russo. Un ripensamento che sia fondato su un maggior ricorso al dialogo ed alla comprensione delle differenze culturali e sociali, sulla base delle quali cercare di trovare un terreno di convivenza comune.
In questo senso, le lezioni di McNamara, che riportiamo di seguito, sembrano quanto mai istruttive:
- Abbiamo mal interpretato e abbiamo continuato a farlo le intenzioni geopolitiche dei nostri avversari, e abbiamo esagerato i rischi per gli Stati Uniti delle loro azioni.
- Abbiamo considerato il popolo e i leader del Vietnam del Sud secondo i criteri tratti dalla nostra esperienza; non abbiamo minimamente compreso le forze politiche interne al paese.
- Abbiamo sottovalutato la capacità del nazionalismo di motivare un popolo a combattere e morire per le proprie convinzioni e i propri valori.
- I nostri errori di valutazione su amici e nemici riflettevano la nostra profonda ignoranza della storia, della cultura e del sistema politico delle popolazioni dell’area e della personalità e del carattere dei loro leader.
- Siamo stati incapaci e abbiamo continuato ad esserlo di riconoscere i limiti della tecnologia delle forze e della dottrina militare. Non siamo stati capaci, inoltre, di adattare le nostre tattiche militari al compito di guadagnare i cuori e le menti di un popolo di mentalità totalmente diversa dalla nostra.
- Non siamo stati capaci di coinvolgere il congresso e il popolo americano in una discussione e in un dibattito ampio e franco sui pro e i contro di un intervento militare su larga scala prima di cominciare l’operazione.
- Quando, cominciato l’intervento, fummo costretti da eventuali imprevisti a modificare i nostri piani iniziali, non abbiamo spiegato pienamente quel che sta avvenendo e i motivi di quello che stavamo facendo.
- Non abbiamo voluto ammettere che né il nostro popolo, né i nostri leader sono onniscienti. La nostra opinione su quale fosse il migliore interesse di un altro popolo e di un altro paese avrebbe dovuto essere messa alla prova di un’aperta discussione internazionale.
- Non ci siamo attenuti al principio che le nostre azioni militari dovrebbero essere intraprese solo congiuntamente a forze multinazionali sostenute pienamente non in modo puramente cosmetico dalla comunità internazionale.
- Non siamo stati capaci di riconoscere che nelle questioni internazionali come in altri aspetti della vita ci possono essere problemi per i quali non ci sono soluzioni immediate: a volte possiamo dover convivere con un mondo imperfetto e disordinato.
- Alla base di molti di questi errori stava la nostra incapacità di organizzare i vertici del potere esecutivo in modo da poter affrontare efficacemente una gamma straordinariamente complessa di questioni politiche e militari.