
Certamente ha fatto molto scalpore la notizia dei gruppi di sprovveduti che intendevano comprare dei finti Green Pass su Telegram e che, a fronte della frode ricevuta, hanno reagito andando a minacciare diffusamente la volontà di intentare addirittura chissà quali class action. Azione collettiva che, secondo gli intenti, sarebbe diretta nei confronti di ignoti interlocutori di mercatini su Telegram per transazioni pagate in bitcoin, solo perché la frode perpetrata in danno degli obblighi normativi non era andata a buon fine.
Insomma: di questi soggetti appena descritti, l’appartenenza alla categoria di “scemi del Green Pass”, è indubbia.
Quelli che però andranno ad affiancare sul podio tali soggetti nella sempiterna olimpiade del disagio che anima il panorama digitale saranno quanti faranno affidamento su metodi fai-da-te e mal raffazzonati per compiere l’attività di verifica dei Green Pass. Tali soluzioni, beninteso, già vengono ampiamente pubblicizzate e puntano su una leva emotiva piuttosto semplice: il rilancio del desiderio di improvvisarsi “sceriffi privati”, analogamente al fenomeno già visto dei vigilantes da balcone. E tale attività consiste in una raccolta di dati e impiego di applicativi in totale violazione e spregio dell’indicazione normativa dell’art. 13 DPCM 17 giugno 2021, la quale prescrive che “La verifica delle certificazioni verdi COVID-19 è effettuata mediante la lettura del codice a barre bidimensionale, utilizzando esclusivamente l’applicazione mobile descritta nell’allegato B, paragrafo 4.”. Ovverosia: l’app VerificaC19. E dunque si realizzerà un trattamento illecito di dati personali, ignorando platealmente il rispetto del principio di privacy by design.
Dal momento che un podio contempla anche una terza piazza, questa andrà riservata a quanti per consolidata ignoranza (e non per malafede, in quanto la malizia del disonesto quanto meno lo salva dall’essere annoverato fra gli scemi) andranno a contestare i quasi certi interventi dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, confondendo l’esercizio del potere correttivo con un “cavillare” e la contestazione di una violazione di legge con un “ostacolo burocratico”.
Le ombre di questa hall of shame non sono certamente confortanti, in quanto continuano ad indicare che il vero nodo da sciogliere è quello di una mancanza delle più elementari basi di cultura digitale. Con buona pace di grandi proclami e narrative, che fino ad oggi hanno avuto l’effetto di ampliare un confusionario rumore di fondo sul digitale, con beneficio di pochi e danno dei più.