
In Italia sono attualmente reclusi 53.660 soggetti. È quanto emerge dall’ultima analisi del Ministero della Giustizia. Nello stesso periodo i soggetti in carico agli 84 Uffici per l’Esecuzione Penale Esterna presenti in Italia, aventi competenza per l’esecuzione delle misure e sanzioni di comunità – definito anche “Sistema di Probation” – sono oltre 67 mila.
Numeri alla mano, sembra che lentamente si stia virando verso un approccio meno carcerocentrico: deflazione processuale e penitenziaria da un lato e logiche di giustizia riparativa dall’altro stanno tracciando la strada verso una revisione della sanzione di comunità del lavoro di pubblica utilità e della misura di comunità prevista nella sospensione con messa alla prova.
Quanto al primo istituto, attualmente il LPU è previsto quale pena sostitutiva in rapporto solamente a taluni reati, puniti con pena detentiva, previsti dal codice della strada e dal t.u. stupefacenti, ed al 15 giugno 2021 risulta essere applicata ad oltre 9000 condannati.
Tale lavoro può consistere in una prestazione socio-assistenziale o sanitaria, di tutela del patrimonio ambientale o culturale, di protezione civile, promozione della sicurezza stradale o manutenzione di immobili.
La Commissione in questo caso ha proposto di prevedere il lavoro di pubblica utilità quale nuova sanzione sostitutiva delle pene detentive c.d. brevi, ossia entro i 3 anni, tale da essere irrogata direttamente dal giudice della cognizione, salva l’opposizione del condannato, per una durata corrispondente alla pena detentiva sostituita.
L’intervento più importante è senza dubbio quello sulla sospensione con messa alla prova come disciplinata dagli artt. 168 bis ss. c.p. e 464 bis ss. c.p.p.
L’istituto, nato nel 2014 riprendendo l’analoga misura prevista nel sistema penale minorile per un ampio ventaglio di reati, ha mostrato una costante crescita nel numero degli utenti. Al 15 giugno 2021 sono difatti 22.721 le persone che stavano beneficiando della misura, oltre 30mila i soggetti in misura di comunità dall’inizio del 2021.
Attualmente essa è prevista per gli indagati di un reato punito con la sola pena pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, purché non siano delinquenti abituali, professionali o per tendenza; si prevede l’estinzione del reato qualora il soggetto abbia eliminato o riparato le conseguenze del reato a lui ascritto e, obbligatoriamente, abbia prestato un lavoro di pubblica utilità per un periodo compreso tra dieci giorni e due anni.
Il vantaggio forse più evidente nel sottoporsi a tale misura da “non condannato”, come ha stabilito la sentenza 231/2018 della Corte Costituzionale, è costituito dalla non menzione nel certificato generale e in quello del casellario né dell’ordinanza di sospensione né tantomeno della sentenza di estinzione del reato.
La finalità del suddetto istituto è ben chiara fin dalla sua promulgazione: ricostruire il patto spezzato con la comunità, così come recentemente sottolineato dall’attuale direttrice della Direzione generale esecuzione penale esterna e di messa alla prova nel corso del TEDxBrianza dal titolo “Il Senso della Pena: costruire sicurezza sociale”.
L’intervento ha evidenziato il carattere non solo afflittivo della misura ivi prevista ma anche e soprattutto l’obiettivo intrinseco della stessa: la ricomposizione della lacerazione, che nessuna sentenza di condanna da sola realizza, all’interno di percorsi individualizzanti che, tenendo conto delle attitudini del soggetto e delle sue esigenze, permettano una sua responsabilizzazione per mezzo della messa a disposizione a vantaggio della comunità di cui fa parte, aumentando la consapevolezza sulle conseguenze dannose subite dalla parte offesa.
Fondamentale in questo senso il ruolo degli UEPE dove è stata implementata la multidisciplinarità degli interventi pur permanendo un ruolo primario dei funzionari di servizio sociale, i quali seguono l’individuo nel suo percorso.
La proposta della Commissione è quella di estendere l’ambito di applicabilità della misura di comunità “ad ulteriori specifici reati, puniti con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a dieci anni, che si prestino a percorsi risocializzanti o riparatori, da parte dell’autore, e risultino compatibili con l’istituto”. Dieci anni di pena edittale, sebbene ancora non individuati in concreto i reati per il quale si potrà, ove accolta dal Legislatore la proposta, ricorrere alla messa alla prova spaventano non poco gli addetti ai lavori.
La via del potenziamento degli istituti di probation è stata indicata anche dalla Ministra della Giustizia nel recente intervento alla Camera, la quale ha ricordato come “il Ministero continuerà a sostenere e potenziare, anche attraverso le riforme presto in Parlamento, i percorsi di esecuzione penale alternativi alla detenzione in carcere e le misure che mettono in contatto il detenuto con il territorio in funzione del graduale recupero del rapporto con la società civile”.
L’auspicio è quello di trovare una via di mezzo tra l’attuale previsione del limite edittale dei quattro anni e la proposta dei dieci anni, magari coniugandola con l’utilizzo, per quanto possibile sistematico, degli strumenti di Restorative Justice: la previsione della mediazione penale nell’istituto giuridico della messa alla prova e la promozione di attività di volontariato con valenza riparatoria che possano, anche solo simbolicamente, restituire qualcosa di positivo alla persona offesa o alla collettività.