
L’inchiostro virtuale si era appena asciugato sul mio articolo Ripensare la cultura del lavoro, che ho percepito segni di malsano fordismo arrivare da chi meno te lo aspetteresti: Facebook.
In un breve ma incisivo commento, Umberto Rapetto ha dato notizia della politica che il più popolare social network a livello mondiale intende adottare con i propri dipendenti che scelgano il remote working dopo la fine della pandemia: ridurre lo stipendio in funzione del posto dove si deciderà di abitare. Secondo me, questa potrebbe essere la decisione più stupida dopo quella di effettuare delle prove fuori programma sul reattore nucleare di Chernobyl.
Quando ho studiato Comportamento Organizzativo, mi è rimasto impresso un concetto: l’equivalenza tra le ricompense erogate dall’azienda e la prestazione del dipendente. Se un dipendente si sente trattato equamente in termini economici, e in aggiunta gli viene dedicata un’attenzione che lo fa sentire parte di una piccola società, allora si sforzerà al massimo nel raggiungimento degli obiettivi. Questo succede perché nella famosa quanto scolastica piramide di Maslow non vengono soddisfatti solamente i suoi bisogni di base, ma gli si consente di identificarsi con il proprio lavoro, nutrendo i bisogni di appartenenza e autorealizzazione. Abbiamo alcuni straordinari esempi di questo tipo di comportamento virtuoso e di patto tra azienda e dipendenti, come ad esempio il modello Ferrero.
Sempre secondo i manuali, invece, un dipendente che percepisca un’ingiustizia nel modo in cui viene ricompensato, allineerà la propria prestazione a quanto ritiene essere giusto, o darà le dimissioni. Un’azienda come Facebook può decidere di sottopagare i propri dipendenti, di approfittare al massimo della propria posizione di forza, ma nello stesso momento assume tutta una serie di rischi che secondo la mia modesta opinione sono aziendalmente inaccettabili.
Facebook Inc. nel 2020 ha fatturato 85,9 miliardi di dollari, con un utile netto di 29,1 miliardi di dollari. Dà lavoro a 58.604 dipendenti – il che vuol dire che ogni lavoratore in media produce un milione di dollari di fatturato. Non esattamente quello che si dice un ritorno dell’investimento sfavorevole.
Come per tutti i servizi di network sociale, di connessione virtuale, di intrattenimento digitale, Facebook esce dalla pandemia più forte che mai. Come per tutte le altre aziende del settore, infatti, il fatto che il mondo intero stesse a casa che non avesse altra alternativa per connettersi con i propri cari che usare i mezzi virtuali è stata una manna dal cielo. Con l’aumento del numero di iscritti, e l’aumento della permanenza dei singoli individui sulle sue pagine, Facebook ha incommensurabilmente aumentato le proprie possibilità di esporre gli utenti stessi ai contenuti pubblicitari dei suoi inserzionisti. Il che da un lato gli ha certamente fatto aumentare il fatturato, dall’altro la mette con molta probabilità in una posizione di forza nel momento in cui andrà a negoziare i nuovi contratti pubblicitari con gli stessi inserzionisti.
Oltre a ciò, Facebook, come tutte le aziende basate sul knowledge working, ha realizzato delle notevolissime economie per quanto riguarda i costi operativi. Ormai da un anno e mezzo i suoi dipendenti pagano l’elettricità, la connessione, e tutti i costi accessori che sono funzionali allo svolgimento del lavoro.
La situazione attuale è tale che sia Facebook che i suoi dipendenti possono realizzare una soluzione win-win al problema della prestazione lavorativa. Da un lato l’azienda risparmia e massimizza i profitti, dall’altro i dipendenti recuperano spazi di vita e realizzano delle economie personali che gli consentono di essere più sereni e di elevare il proprio tenore di vita. Un aspetto, quest’ultimo, che si riflette in maniera positiva sulla prestazione.
Esiste a mio parere il rischio concreto che la ventilata riduzione degli stipendi in funzione del luogo fisico dove si svolge la prestazione lavorativa possa essere un boomerang enorme pronto a colpire Facebook in piena faccia. Un’azienda di questo tipo, esposta all’occhio attento dei media e dei watchdogs di tutto il mondo, dovrebbe pensarci a mio parere due volte prima di dare la percezione della cattiva multinazionale che tenta di approfittare ulteriormente di una situazione che la vede già guadagnare in maniera stellare, per mettere i propri dipendenti davanti ad una scelta molto scomoda: o ritorni in ufficio e riprendi sulle tue spalle lo stress del commuting, rinunci nuovamente agli spazi di serenità che ti sei ritagliato con la tua famiglia ed i tuoi amici; oppure guadagnerai di meno.
Facebook potrebbe a mio parere ritrovarsi di fronte alla ribellione aperta dei propri dipendenti, i quali potrebbero inscenare manifestazioni clamorose, come ad esempio la cancellazione del proprio account o la sospensione di qualunque tipo di pubblicazione. Questo tipo di protesta potrebbe molto rapidamente assumere dimensioni globali: le reti sociali di 58.000 dipendenti comprendono, entro pochi gradi di separazione, moltissimi utenti e potenziali acquirenti dei prodotti che Facebook ha interesse a pubblicizzare.
Se invece Zuckerberg dovesse decidere di prendere atto che i tempi sono cambiati e che è nel suo stesso interesse agire in conformità, potrebbe fare una cosa che gli guadagnerebbe le simpatie di tutti: ricompensare i propri dipendenti in maniera collegata alla loro prestazione e non al luogo che decideranno di chiamare casa.
Dato che è una persona l’intelligenza certamente superiore alla media non gli sfuggirà che un’azienda che poggia la sua esistenza sulla semplice volontà degli utenti di chiacchierare sul suo network dovrebbe evitare di pestare i piedi alla sua unica fonte di reddito.