
Fin dagli esordi della pandemia in Italia, e dai primi articoli di Infosec, abbiamo sottolineato un assunto: nella moderna società dell’informazione, si può lavorare letteralmente da qualunque luogo.
Si tratta di un aspetto del nostro vivere moderno evidente già da anni a chi conducesse una professione nomade, che lo portava a viaggiare tra diversi uffici e diversi clienti sparsi nel mondo. In questa modalità, e dati i ritmi incalzanti delle moderne professioni intellettuali, gli spazi di viaggio erano altrettante occasioni di lavoro. Seduti in treno, in aereo, nelle sale d’aspetto, o in qualunque altro luogo si prestasse alla bisogna, i knowledge workers aprivano il proprio portatile o afferravano il proprio smartphone, ed erano immediatamente in un ufficio fatto di bit.
Anche se i fattori abilitanti del lavoro nomade erano evidenti a tutti, nelle aziende ha imperato comunque per decenni una cultura dell’ufficio come unico luogo deputato allo svolgimento dell’attività professionale. Uno stilema culturale derivante dal lungo processo di sviluppo delle attività umane: dal campo al piccolo opificio, dalla fabbrica all’ufficio, il lavoro è stato sempre qualcosa da svolgere in un luogo fisico e condiviso con i colleghi.
Questa condizione ha informato tutti i modelli organizzativi e di calcolo della prestazione, promuovendo una malsana cultura del controllo. Un soprastante sorvegliava il lavoro dei contadini, un caposquadra quello degli operai, ed un manager quello degli impiegati. E dunque la prestazione del singolo era legata a concetti di produzione oraria: quante spighe si raccoglievano in un’ora, quanti bulloni si producevano in un’ora, e quante pratiche si sbrigavano in un’ora. Lo stare tanto in ufficio veniva scambiato per attaccamento all’azienda, dato che si pensava che chi più passava ore alla propria scrivania, più produceva, esattamente come un operaio al tornio.
Il malsano frutto di questo tipo di cultura era la timbratura del cartellino, con le corse a perdifiato dei commuter in pieno stile fantozziano. Un ritardo veniva interpretato come scarso impegno o scarsa affezione all’azienda. E al malcapitato pendolare che aveva speso imprecando l’ultima ora e mezza nel traffico cittadino, pur essendosi alzato ad orari antelucani, dopo il disagio del viaggio toccava sopportare anche le alzate di sopracciglio, le ramanzine, o peggio. L’ufficio diventava spesso il luogo in cui prosperavano individui tecnicamente poco capaci, ma perseveranti nel passarvi molto tempo e nel farsi vedere dai manager.
Molte professioni intellettuali sono tuttavia per natura svincolate da questo tipo di logica. Non si producono pezzi di qualcosa, ma si raggiungono obiettivi spesso immateriali e ad altissimo valore aggiunto. Per definizione, la produzione di idee non è una funzione del tempo. Trovare la soluzione ad un problema può richiedere dieci minuti, come molte ore, ed è per definizione scarsamente misurabile. Un aspetto che manda in crisi qualunque modello di misura della prestazione secondo schemi fordisti.
La pandemia ha mostrato che il re è nudo, e che bisogna cambiare atteggiamento e metodi. La prestazione lavorativa di un knowledge worker non è misurabile in termini di ore spese alla scrivania in ufficio, ma sta in un luogo che comincia e finisce nel perimetro della sua capacità di generare risultati. Non ha tanto bisogno di supervisione, quanto di connessione per ricevere appoggio o generare influenza.
Le giovani generazioni in particolare hanno ben chiari questi concetti in testa. Cresciuti in un mondo ed in una cultura familiare con meno regole strutturali, sono meno propensi ad agganciarsi a schemi lavorativi fissi, dalle nove alle diciotto. E già in altri Paesi si verificano numerosi casi in cui alla chiamata generale al ritorno in ufficio, si risponde con uno stentoreo signornò e le dimissioni.
Le aziende meno illuminate cercano di rientrare nella propria zona di comfort, quella fatta di schemi ripetitivi, orari fissi, tutti in ufficio puntuali e la pausa alla macchinetta del caffè all’ora designata. Manifestano la propria preoccupazione rispetto alla perdita di identità aziendale connessa all’eventuale mancato ritorno in ufficio dei propri dipendenti.
In realtà, è necessario gettare via la coperta di Linus dell’equivalenza tra presenza in ufficio e lavoro efficace. Quello che di sicuro mancherà nel nuovo mondo sarà la possibilità di fondare e mantenere una cultura aziendale poggiandosi sui legami organici che si stabiliscono naturalmente tra persone che condividono lo stesso spazio. Bisognerà invece ripensare il ruolo e le attribuzioni della funzione Risorse Umane e probabilmente riscrivere i manuali di comportamento organizzativo. La cultura aziendale dovrà essere basata, più che mai, sul rispetto reciproco, sulla valorizzazione dei capaci e non dei politicanti, sulle ricompense basati sui risultati e non sul tempo speso per fare una certa cosa.
È nello stesso interesse delle aziende, andare in questa direzione: nel mondo moderno, globalizzato e pervasivamente digitalizzato, un nuovo lavoro è letteralmente alla distanza di un click.