
Sì, lo so, questo è un giornale di tecnologia, focalizzato principalmente sulla sicurezza informatica. Sì, lo so, quando scriviamo di altre materie il ritorno in termini di visualizzazioni è basso. Sì, lo so, l’editoria moderna è basata sul generare click e visualizzazioni, come quella dell’altro ieri era focalizzata sul vendere copie di giornale.
Però, è vero anche che il nostro fondatore e direttore, con una stupefacente dose di assoluta incoscienza, dà a noi redattori la libertà di scrivere praticamente su quello che vogliamo, senza filtro alcuno, senza un’eccessiva attenzione agli umori del pubblico. Forse deriva dal fatto che in quanto accolita di nerd, i membri della redazione di Infosec sono stati durante le loro vite per lo più disinteressati alla popolarità. Piuttosto sono sempre stati attenti a dire quello che pensano, e a fare la cosa giusta, in qualunque situazione. E che altro sono le testate acchiappa click, quelle che agganciano a scatenano le polemiche più inutili e basse, se non l’equivalente monetizzato delle gare di popolarità che hanno funestato le nostre vite dall’asilo all’università?
E per cui, senza paura, scrivo un articolo dedicato al calcio in una rivista di tecnologia. L’ho fatto in passato e lo rifaccio, non perché io possa esibire un particolare passato da calciatore, tutt’altro. Più bibliofilo che pedatore, ero regolarmente l’ultimo bambino ad essere scelto. E, come le regole prescrivono e l’inabilità al dribbling imponeva, finivo invariabilmente in difesa o in porta. In fondo, un calcione non si nega a nessuno, e nelle competizioni sui campi in terra di periferia il portiere è più o meno un birillo tra i due pali.
Anche come portiere, che diventò il mio ruolo fisso dopo che durante la mitica estate del 1982 un amico che faceva scuola calcio me ne insegnò i rudimenti, non posso vantare grandi benemerenze. Più coraggioso nelle uscite che tecnico; più intimorente, una volta cresciuto, che agile. Ne ho parate tante e raccolte altrettante dal fondo della rete. Insomma, mai bravissimo, appena decente per gli standard comuni, me la cavavo semplicemente perché i miei compagni di gioco erano degli occasionali come me. Tutti in campo con maglie e completini di fortuna. Il mio, con i pantaloncini e i gomiti finalmente imbottiti dopo decenni di sbucciature, lo ebbi come regalo di compleanno, già grande.
Ma il calcio, quello vero, se ne frega di quanto sei bravo o di che marca è il tuo completino. È lo spirito che si instaura tra te e i compagni di gioco. È la competizione che ti fa giocare d’estate fino all’ultimo raggio di luce. Sono le risate agli svarioni e gli sfottò del post-partita. Sono le ragazze che fanno il tifo a bordo campo e ti fanno sentire in Serie A. È quella rara volta in cui ti riesce un gesto tecnico apprezzabile, un colpo di reni, uno stop a seguire, un tunnel malefico, e quel pallonetto a foglia morta che non dimenticherai mai.
Il calcio è cultura sociale che discende dalla volontà di stare insieme per novanta minuti a costruire memorie, a gioire per una vittoria risicata e smadonnare per una sconfitta immeritata. È la nostra esistenza che si svela, con i suoi colpi di fortuna ed i suoi imprevisti, su un rettangolo d’erba o di polvere. È quella cosa che ti fa annuire quando senti i versi di Una vita da mediano di Ligabue, perché in genere sei nato senza i piedi buoni e lavori sui polmoni, e stai sempre lì nel mezzo.
Perché della vita non ricorderai i trofei vinti, e magari i soldi fatti per essere arrivati primi in un torneo. Né quanto bello era il tuo completino in confronto a quello degli altri, né quanto ti sembravano miseri quelli fuori dalla recinzione, che non avevano i soldi per affittare il campo. Ti ricordi degli amici, delle risate, delle emozioni, della sana adrenalina.
Un gruppo di ricchi signori ha deciso di rapire dodici squadre per fondare un club esclusivo in cui giocare da soli. Hanno deciso che i loro completini sono più belli, i loro trofei più sfavillanti, e che a noi deve restare il ruolo di quelli che guardano da bordo campo, e che pagano per l’affitto dello stesso. Nella loro infinita arroganza, hanno scambiato la gioia di giocare e di tifare come un atto dovuto, di vassallaggio, da parte di persone che, inferiori di ceto, devono essere già contente di partecipare come spettatori al loro pranzo di gala.
Molti anni fa lessi un bellissimo libro di Stefano Benni, La compagnia dei celestini. Un gruppo di talentuosi bambini, innamorati del gioco, cercava di sfuggire alle mire di venali commercianti del calcio, evadendo con un dribbling ed una pernacchia dalla loro presa.
Considerata la mia inabilità al dribbling, non mi resta che appigliarmi alla pernacchia.