
Poi è arrivato il giorno di cui avresti voluto fare volentieri a meno.
Una persona a te cara, a cui tieni più di te stesso, sta male, respira male, la febbre è alta e non scende; il medico di base, rigorosamente attraverso il solo supporto telefonico, ti manda a fare il tampone e nel frattempo “tachipirina e vigile attesa”, il tampone è negativo, ma “hai sentito dire” che spesso non è esatto, la febbre intanto non accenna a diminuire e sia la vigile attesa, sia la tachipirina, generano solo ansia e preoccupazione e nessun beneficio. Pensi che si tratti di una “frescata” dovuta alle stranezze di questo mese di aprile e che comunque i “vecchi” malanni continuano ad esistere, nonostante il Covid…
Ma nonostante la ricerca affannosa di una spiegazione razionale extra pandemica non riesci a distogliere la mente dalla possibilità di essere nuovamente sotto attacco di questo terribile virus.
Così, una volta organizzata la famiglia, si parte per il Pronto Soccorso, senza però prima essersi adeguatamente consultato per capire quale fosse il migliore. Presa la decisione, alle 8 di mattina ci presentiamo al “Triage”, visti i sintomi dichiarati ci indirizzano subito verso l’area definita “Percorso Protetto”, accoglienza tempestiva, tampone e prelievi effettuati immediatamente per poi passare nell’area “Attesa Covid” per aspettare i risultati.
“Area Attesa Covid”, costituita da un tendone semi gonfiabile della Protezione Civile delimitato da delle ringhiere per dare la possibilità di camminare all’esterno e due WC chimici nella parte posteriore (evito di descrivere le condizioni igieniche).
All’interno, pieno di spifferi, quattro stufette elettriche e una serie di panchine completamente instabili e deteriorate, due contenitori per i rifiuti, mai svuotati, e un carrello della spesa abbandonato con del cibo marcito all’interno.
Rassegnati e diligenti iniziamo la nostra lunga attesa che si protrarrà per più di 14 ore.
Attesa che però ci consente di osservare tutto quello che succede nella realtà e non attraverso gli occhi di un servizio televisivo o di un’inchiesta giornalistica; di sentire la disperazione dei familiari ai quali viene comunicato il decesso di un loro caro, di osservare le numerose autoambulanze che senza sosta trasportano al Pronto Soccorso pazienti, per lo più anziani, che escono sulle lettighe con lo sguardo spaventato e disperato, avvolti in una solitudine difficile da comprendere.
Ma soprattutto un’attesa surreale, caratterizzata dagli occhi di medici ed infermieri stremati da un ritmo difficile da sostenere, dai loro discorsi nelle poche e limitate pause che hanno a disposizione, presso le macchinette distributrici di caffè.
Una vera e propria guerra, un’atmosfera completamente diversa da quella raccontata dalle notizie o peggio ancora nelle chat di WhatsApp a cui partecipano i maggiori sedicenti esperti e tuttologi dell’ultima ora e che ti riempiono la memoria del telefono di dati, di grafici e bollettini copiando ed incollando informazioni assolutamente inutili e comunque facili da reperire.
Ed è naturale chiedersi perché tutto ciò, ma l’unica risposta che ti senti ricevere è semplicemente questa, ovvero: “Siamo in emergenza!”
In emergenza? 14 mesi dopo dall’inizio della crisi e l’unica risposta che ricevi è: “siamo in emergenza”?
Emergenza è una “particolare condizione di cose, un momento critico, che richiede un intervento immediato” oppure una “circostanza imprevista”, così mi pare ricordare confortato anche da un controllo sul vocabolario della lingua italiana e da qualche materiale di studio acquisito in questi anni.
Perché definirla ancora emergenza dopo quattordici lunghissimi mesi? Perché tutto quello che ho potuto vedere intorno a me durante questa lunghissima attesa non mi lasciava altra possibilità se non quella di associare la sola parola Emergenza?
Forse è proprio questo il problema; abbiamo vincolato mentalmente questa crisi pandemica ad una continua gestione dell’emergenza senza essere capaci di modificare l’atteggiamento verso un concetto di ricostruzione a lungo termine, sicuramente mancano le risorse, ma non ci deve mancare la speranza, ovvero quello di cui maggiormente abbiamo bisogno e che ci fa vedere lontano ed essere ottimisti.
Insomma, Resilienza; sì proprio quel termine che va tanto di moda, di cui se parla fin troppo in Webinar e convegni on line e si scrivono inutili post sui social media, che altro non è che uno stato mentale e non un processo aziendale.
Alla fine, molto più fortunati di tanti altri, siamo tornati a casa.
Mentre guidavo, con a fianco mia moglie, ci siamo guardati, in silenzio, con gli occhi lucidi pieni di rabbia, fatta però sparire appena arrivati a casa, dove i nostri figli ci aspettavano svegli e felici di rivederci.
Gli abbiamo raccontato di come abbiamo passato la giornata, gli abbiamo detto che è stato come essere in un campeggio dove abbiamo conosciuto delle belle persone che ci lavorano e che nonostante il mare fosse mosso e loro fossero pochi e senza salvagenti si sono dati così tanto da fare affinché nessuno affogasse.
Il mare mosso però ha poco a che fare con l’emergenza.
Uno Tsunami è un’emergenza, quello che ci travolse a febbraio 2020.
Non può durare per sempre.