SALUTE

Lo Stato e la pandemia: un esercito senza truppe né caserme

Nella gestione dell’emergenza come nell’organizzazione del piano vaccinale, il nodo centrale resta uno solo: il rapporto e la collaborazione tra Stato e Regioni.

La pandemia non l’aveva prevista nessuno. Neppure la riforma  costituzionale del 2016, che fu bocciata dagli italiani nel referendum di quel dicembre. Se il cambiamento della Costituzione fosse infatti andato in porto, con le modifiche previste per i rapporti tra Stato e Regioni anche in materia sanitaria,  la lotta contro il Coronavirus adesso non sarebbe stata molto più efficace, perché quella riforma riallargava le competenze dello Stato in tema di pianificazione e distribuzione delle risorse, ma lasciava alle Regioni l’organizzazione della macchina della salute, come ci raccontano ogni giorno le cronache di questi giorni.  Ed è proprio l’organizzazione uno dei punti che si sono rivelati più critici nell’azione di contrasto dell’Italia al Covid19.

A definire l’assetto dei poteri tuttora in vigore fra centro e periferia era stata la riforma del Titolo V della Costituzione, voluta dal centrosinistra nel 2001 per frenare l’avanzata della Lega sull’onda del federalismo (con tratti separatisti). Gli effetti si videro subito. Ed erano pesanti: una frammentazione che di fatto creò 20 sistemi sanitari diversi,  tanti quante erano le Regioni, e -insieme- un aumento delle diseguaglianze fra le diverse parti del Paese. Fu così che esplose il fenomeno avvilente del turismo della salute, con migliaia di italiani che si spostavano in regioni diverse dalla propria per usufruire di servizi ritenuti migliori. Il tutto senza che ne beneficiasse la trasparenza e venisse sconfitto il tarlo della corruzione. Anzi.

Un disastro, insomma. Non solo politico e culturale, ma anche per la vita civile nella sua concretezza.  Che poi è il campo su cui si misura davvero il tasso di fiducia dei cittadini verso le istituzioni. Il Coronavirus ha fatto deflagrare la sanità dai mille volti. Serve a poco soffermarsi ancora sul festival delle dichiarazioni e delle decisioni prese dai presidenti delle Regioni nell’ultimo anno. Il Paese ha indossato l’abito di Arlecchino procedendo in ordine sparso sia sulle regole da rispettare per evitare i contagi sia sulle riaperture-chiusure delle scuole, tanto per citare alcune fra le disparità più forti che hanno provocato disorientamento e gravi disagi. E l’operazione vaccini ha ribaltato classifiche di merito che ritenevamo consolidate: il Lazio, che con Roma è sempre stato considerato simbolo di una burocrazia invasiva e inconcludente, a sorpresa ha brillato per rapidità e precisione, mettendo subito in sicurezza le fasce più fragili della popolazione, mentre la Toscana, indicata per anni come un modello, è finita a fare il fanalino di coda per le vaccinazioni degli over 80.

Il governo guidato da Mario Draghi, che si è insediato il 13 febbraio scorso, ha cercato di dare una sterzata con due mosse. Politicamente è andato all’offensiva con i colossi dell’industria farmaceutica, convincendo la Commissione  europea ad assumere una linea più dura per ottenere il rispetto dei contratti e delle promesse forniture di vaccini; sul piano organizzativo ha invece cambiato la cabina centrale di regia nominando commissario all’emergenza il generale di Corpo d’Armata Francesco Paolo Figliuolo e affiancandogli il nuovo capo della  Protezione Civile, Fabrizio Curcio. Un svolta di stampo militare, dunque, con uomini di provata esperienza e capacità per accelerare la campagna di immunizzazione degli italiani. Eppure… 

Eppure i problemi persistono. Dovuti non soltanto al numero insufficiente delle dosi che arrivano nel nostro Paese. Il motivo è semplice: puoi cambiare la testa, ma se il corpo risponde ad altre centrali difficilmente raggiungerai l’obiettivo. Lo Stato nomina i comandanti, però truppe (il personale) e caserme (le strutture)  dipendono in larga misura dalle Regioni.  Il nodo è questo, al di là delle rassicurazioni sulla reciproca volontà di collaborazione. 

L’articolo 32 della Costituzione recita:  “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Nello scorso febbraio una sentenza della Corte Costituzionale ha sancito che in caso di pandemie tocca allo Stato difendere la salute dei cittadini su tutto il territorio nazionale. Ma questi sono i principii ispiratori: servono delle buone  leggi per realizzarli. E allora, mentre sul campo medici e infermieri continuano a sbattersi per salvare il maggior numero possibile di vite, in Parlamento sarebbe ora che si riaprisse la pratica della sanità pubblica (ma anche privata) per rimettere ordine e razionalità nel comparto più delicato di tutti. Nelle emergenze, certo, ma anche nella normalità quotidiana che prima o poi, alzando preghiere o facendo scongiuri, ritornerà. 

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