
“E’ il più bel museo italiano che abbia visto”, scrissi polemicamente sul libro dei visitatori del Louvre, durante la mia prima visita a Parigi nel 1997. La lunga camminata, durata praticamente tutto il giorno, nei corridoi del maggiore palazzo espositivo francese, mi aveva lasciato, oltre al mal di piedi, anche abbastanza veleno in corpo da attivare la mia vena polemica dei vent’anni.
E in effetti, una visita al Louvre basta per rendersi conto che è il posto migliore per vedere capolavori del nostro e di altri paesi. Sentire un tremito nella Forza al cospetto della Nike di Samotracia, lassù, alta sullo scalone. Provare un piccolo moto di delusione e dispetto davanti alla Gioconda, un quadro relativamente piccolo e ingabbiato in una struttura muraria con un miliardo di teste che impediscono l’osservazione.
Per vedere l’arte francese si gira a lungo, e poi alla fine si arriva in una sala uguale alle altre, in cui sono esposti alcuni grandi quadri dei maestri francesi: David, Delacroix, et c’est fini. Tele ampie e pretenziose, la Marianne che guida il popolo alla Rivoluzione, Napoleone su cavallo rampante. Meglio, molto meglio per sentire l’anima profonda della Francia, andare al Musée d’Orsay o all’Orangerie e commuoversi davanti alle ninfee di Monet, ai giocatori di carte di Cezanne, alle donne meravigliose di Renoir, alle scene en plein air di Seurat, alle ballerine di Degas e alle fantasie aborigene di Gauguin.
Andare per musei, sembra strano doverlo dire, è un’attività culturale che serve ad elevare la conoscenza e lo spirito. Si va per musei per rassicurare il proprio animo sul fatto che i secoli che ci hanno preceduto hanno prodotto bellezza, ciascuno a suo modo. Si può preferire una visione allucinata di Bosch alla perfezione formale di Raffaello; si può restare freddi davanti ad una Madonna giottesca, ma andare in visibilio davanti a Guernica di Picasso; si possono ammirare le ombre di luce di un Fergola e restare passivi davanti alle geniali Metamorphoses di Escher.
Tuttavia, ogni opera d’arte, oltre all’immediato piacere o dispiacere estetico, stimola la nostra mente ad entrare in contatto con quel mondo, quel periodo, quel modo di essere, di vedere e rappresentare la realtà. Ogni opera d’arte è un codice dell’anima, e imparare a vedere e a comprendere quei codici è parte fondante del processo di arricchimento culturale.
Beninteso, non tutta l’arte è facile, né immediatamente comprensibile. Personalmente, ho a lungo detestato i pittori futuristi italiani, fino a quando con la maturità il mio senso estetico ha finalmente compreso il codice che sta dietro le opere, e ha cominciato, felice, a vedere un altro mondo. Molta arte è addirittura nascosta o incomprensibile, fino a quando non si fa lo sforzo di cercarla e decodificarla. Famoso è l’esempio della facciata bugnata del Gesù Nuovo a Napoli, che solo in tempi moderni si è riconosciuto essere uno spartito musicale. E ci vuole sforzo e volontà per interpretare i cartigli in arabo che decorano le porte e i pilastri interni della Moschea Blu di Istanbul.
Lo sforzo di ricerca, di comprensione, di decodifica dell’arte; la penetrazione di nuovi linguaggi estetici e semiotici; l’interpretazione e l’assunzione nel proprio bagaglio di conoscenze di nuove e diverse espressioni dell’intelletto umano, è la base della cultura.
Non così sembrano pensarla alcuni moderni gestori delle grandi istituzioni museali. Come la managerialità in campo medico ha prodotto efficienza, ma anche perdita di focalizzazione sull’uomo e sui suoi dolori; così la fruizione dell’arte come fenomeno di massa si riduce spesso a pochi momenti mordi e fuggi, ad un selfie davanti all’opera famosa da pubblicare sui Social Media, alla corsa alla facilitazione, al prossimo biglietto, al museo come mero generatore di utile economico.
Così sembrano pensarla i gestori del Louvre, i quali hanno deciso di rimuovere dalle didascalie delle opere i numeri romani, seguiti nell’esempio dal museo Carnavalet. E così, Luigi XIV diventa Luigi 14, come se non si trattasse di uno dei più illustri sovrani che la Francia e il mondo abbiano conosciuto, ma di un nickname qualsiasi, come “occhibelli 86”. Un personaggio da Instagram, una foto sfocata davanti ad una grande tela e il gesto della V con le dita, perché “le touriste, c’est moi”.
Niente deve disturbare il turista da fast food, neanche lo sforzo di comprendere una numerazione presente in tutta l’arte classica e nella maggior parte dell’arte moderna e contemporanea. Una numerazione che è stata sempre indice di nobiltà culturale, tanto da essere usata per fornire credibilità e imponenza a scritti ed elementi architettonici che altrimenti non ne avrebbero avuta.
Il Louvre abdica con questo atto al suo ruolo di grande istituzione culturale, discende nella strada non mantenendo la propria natura di maestro, che è un fine condivisibile della volgarizzazione della cultura, ma riducendosi al rango di acquafrescaio semplice.
Quanto passerà, prima che i neobarbari, legittimati dalla semplificazione, decidano di applicare la cancel culture alle lapidi sparse per chiese e città? Quanto passerà prima che i quadrumani del Cretinevo pretendano la liofilizzazione dell’esperienza culturale perché possa diventare palatabile anche per loro? In attesa di capirlo, possiamo ufficialmente affermare, con il linguaggio ingenuamente ignorante della popolana de L’amico del cuore, che il Louvre, da oggi, è culturalmente basato a Piazza SPIOX.