
Prima del COVID esisteva una nazione fatta da persone che passavano molto del proprio tempo a rendere il mondo senza confini.
Era una stirpe che parlava tutte le lingue del mondo, che non conosceva alcuna differenza tra i suoi appartenenti, e che era accomunata da una cosa sola: se li guardavi negli occhi, vi vedevi invariabilmente riflesso il cielo.
Era il popolo dell’aria, quello fatto dai viaggiatori internazionali, uomini e donne abituati a compiere più volte al mese lo stesso insieme di gesti.
Arrivo nelle hall immense dei grandi aeroporti, o nelle più modeste entrate degli scali periferici. Passo svelto, ma mai affrettato, i tempi calcolati per starci dentro tranquillamente. Lo zainetto con il computer e solo un piccolo trolley, dentro cui anni di esperienza avevano sedimentato l’essenziale per la sopravvivenza in giro per il mondo. Tre camicie, una giacca, biancheria, il nécessaire. Tutto impilato stretto e preciso, senza il minimo spreco di spazio.
Una sosta per un caffè, al bar o in sala VIP, non fa differenza. Un occhio alle mail e uno allo schermo, focalizzato sulla sigla del tuo volo. E poi chiudere il computer, fare la fila, tirare fuori il passaporto da una tasca esterna dello zaino. Un sorriso e un buongiorno agli addetti al check-in.
E poi la nascita al contrario, la breve passeggiata nel corridoio bollente d’estate e gelido d’inverno che ti trasforma da bipede medio a essere alato. Un buongiorno alle hostess e poi via verso il tuo angolino di fusoliera. Trolley in cappelliera, zaino sotto il sedile, computer nella tasca e cuffie in testa. Cintura allacciata con un rapido, pratico gesto fluido. Poca attenzione alla litania delle misure di sicurezza, sentita centinaia di volte, ma che comunque ripassi mentalmente.
Quando finalmente l’aereo si anima, il tuo cuore non perde un colpo, ma le pupille si dilatano mentre guardi fuori dal finestrino. Durante la fase di rullaggio vedi l’erba, le sagome dei bassi edifici dell’aeroporto, la torre di controllo. Il familiare colpo all’indietro quando si accelera per la corsa di decollo è già voglia di volare.
Lasciando la terra indietro e andando su nell’immensità, fai attenzione ai movimenti del velivolo, fino a quando le nuvole diventano fiocchi d’ovatta giù in basso. E il cielo è sempre là, uguale e diverso ogni volta, terso da vedere gli alberi come capocchie di spillo, o pieno di pinnacoli di nuvole come stalagmiti in una grotta celeste.
Ho visto tanti cieli nei due decenni passati a solcare le rotte di tutto il mondo. Il cielo familiare dell’Italia, conosciuto come il cortile di casa, dove ormai basta un’occhiata in basso per sapere dove sei. Il cielo speziato del Medio Oriente, con i canti dei muezzin sopra il Bosforo e le luci lontane di Teheran. Il cielo misterioso dell’India, con quella lunga autostrada dritta e solitaria nella notte. Il cielo brumoso di Pechino, affollato di draghi e di spiriti di imperatori. Il cielo indimenticabile della Siberia di notte, uno scrigno di stelle su poco velluto nero. Il cielo severo di Osaka, con le linee disciplinate della città, dritte come la katana di un samurai.
E volando insieme al sole, il cielo solitario dell’Atlantico, con l’oceano sempre muto e uguale, fino a quando non ti accolgono le pianure ghiacciate del Canada a novembre, o le lagune costiere degli Stati Uniti, visione d’America prima che la Grande Mela non ti stringa nei tuoi sogni infantili. E più a sud, lo splendore abbacinante delle spiagge messicane, promessa di sorrisi e di cielito lindo.
Il mio ultimo volo è stato a inizio febbraio 2020, di ritorno dai vulcani delle Canarie. Già mentre eravamo lì, gli echi lontani della minaccia cinese arrivavano a riempire di incertezza le pause tra una riunione e l’altra. Li abbiamo scossi via, come si scuote dalla memoria un film catastrofista dopo aver spento il televisore. Sull’autobus da Santa Cruz all’aeroporto, nascevano i primi articoli per Infosec.
All’atterraggio a casa, uomini in mascherina ci hanno preso la temperatura. Ci siamo guardati, smarriti, con un sorriso nervoso. Quelle facce fatte solo da occhi sarebbero diventate a breve le nostre, celate sotto un velo di negazione.
Ora l’oblò sul mondo è la finestra di casa, e questo volo strano lungo un anno sembra a volte non avere meta né fine.
Noi che eravamo il popolo dell’aria, siamo tutti orfani della nostra Patria fatta di nuvole, e aspettiamo ansiosi il giorno della nuova libertà.