
Alcune challenge online sono pericolose, ancor più se possono riguardare, o peggio, sono dirette nei confronti di soggetti particolarmente vulnerabili come i minori. Ma fino a che punto i genitori possono vigilare e condividere un uso consapevole degli strumenti con i propri figli, e prevenire i pericoli che sono stati oggetto di recenti fatti di cronaca?
La consapevolezza deve riguardare, fra le altre cose, il meccanismo di funzionamento delle challenge online. Insomma: si parla spesso del cosa sono, ma quasi mai del metodo seguito. L’impatto generato, spesso, viene discutibilmente sminuito, limitandosi a considerazioni circa una minorata difesa della vittima, arrivando persino ai confini di quello che è, di fatto, un victim-blaming digitale. Parlare di Jonathan Galindo ma non del suo meccanismo d’azione offre spunti imperfetti per una tutela altrettanto imperfetta, soprattutto perché si considerano gli effetti e non le cause.
Una challenge online è caratterizzata da almeno tre fasi: attrazione dei partecipanti, partecipazione alla sfida, creazione del vincolo. I meccanismi emulativi, e la ricerca di appartenenza, sono il movente tipico della partecipazione. Dal momento che lo schema di funzionamento è lo stesso, a prescindere dai contenuti leciti o illeciti, o dalla pericolosità intrinseca, è bene averne contezza per rilevare anomalie ed intervenire tempestivamente.
In che modo sono attratti i partecipanti? Una parola emblematica: engagement. Si può pensare al pifferaio di Hamelin, ma ciò che attrae non è riconducibile ad un soggetto identificato bensì al tema e alle modalità attraverso cui viene proposto. Soprattutto se la sfida è illecita, viene presentata attraverso un meccanismo di passaparola per indurre un senso di appartenenza e mira all’orgoglio di aver superato un qualche tipo di selezione: l’esclusività crea infatti attrazione. E nel digitale sono molte le “stanze riservate”, o apparentemente tali.
Come si partecipa alla sfida? Agendo. Facendo qualcosa. Solitamente qualcosa che viene percepito come poco rilevante, non forzato e volontario. Ad esempio: accettare un contatto o l’invito ad un gruppo. Qui più che sull’esclusività, si gioca sul senso di mantenimento del controllo. Il pensiero comune è il classico: “ne esco quando voglio”, che traduce una percezione distorta del rischio. Si inizia così ad informarsi sul contenuto della challenge, ritenendo erroneamente di essere in un ambiente sicuro. E magari, se la challenge è fatta per step successivi, si intraprendono i primi passi sempre con maggiore leggerezza.
A questo punto, come si crea il vincolo? Soprattutto, dovremmo considerare il perché si crea. Senso di competizione, pressione del gruppo, vergogna, sono moventi comuni. In questa fase può intervenire anche una pressione esterna, spesso caratterizzata da vere e proprie minacce. Le più comuni: rendere pubblica la partecipazione alla challenge (se imbarazzante o illecita), o nei casi più estremi far credere un pericolo per l’incolumità fisica di sé e dei propri cari in caso di abbandono della sfida.
Quando si è consapevoli di questo tipico (e minimale) schema di funzionamento, è già possibile riconoscere che è in atto un tentativo di manipolazione ai propri danni. E questa è la base fondamentale su cui si possono edificare le migliori difese. Preferibilmente, prevenendo attraverso la condivisione di questa consapevolezza con i propri figli, soggetti più esposti e a rischio.