
Il tema della campagna vaccinale è uno degli argomenti preminenti non soltanto da parte di esperti per i monitoraggi di efficacia e per le analisi dei dati ma anche e soprattutto nei dibattiti e nelle iniziative che si avvicendano nella nostra quotidianità.
Uno degli argomenti che è emerso dallo scorso dicembre, è quello dei locali cc.dd. “Covid-free”. Gli esercenti, in pratica, avrebbero intenzione di auto-applicare rigidissimi protocolli sanitari e consentire l’accesso ai propri locali esclusivamente a chi risulta essere stato vaccinato. Da un lato, è comprensibile la trovata pubblicitaria per ottenere visibilità mediatica, e sinceramente la speranza è che tutto rimanga nient’altro che uno spot per avere qualche minuto di attenzione sui social network.
Volendo analizzare lo scenario dal punto di vista pratico, in che modo si potrebbero selezionare gli accessi? Di certo, acquisendo dati personali relativi alla salute. E su quale base giuridica potrebbero essere raccolti, in modo tale che sia garantita la liceità del trattamento? Sinceramente, invocare l’applicazione dei protocolli sanitari è inesatto in quanto non prevedono tale misura specifica, così come un generico richiamo alla base fornita dall’art. 9.2 lett. i) GDPR, per cui “il trattamento è necessario per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica”, non può essere valido in quanto manca una norma che definisca l’obbligo specifico nonché le “misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti e le libertà dell’interessato”. Stesso discorso qualora si intenda ricorrere alla base di cui all’art. 9.2 lett. g) GDPR per cui “il trattamento è necessario per motivi di interesse pubblico rilevante sulla base del diritto dell’Unione o degli Stati membri”, volendo percorrere una tortuosa e diabolica applicazione del TUSL.
Prevedendo già fantasmagoriche acrobazie dialettiche e pareri surreali per giustificare un consenso che sarebbe tutt’altro che libero, e dunque invalido, possiamo dunque affermare che non vi sia alcuna base dal punto di vista giuridico per tali attività. Inoltre, sarebbe oltremodo singolare prevedere una conferma di prenotazione ad un locale allegando un dato sanitario, o addirittura una “autodichiarazione” (figlia dei tempi correnti) di dubbio valore giuridico e certa inefficacia. O ancor peggio vedersi richiesta all’ingresso l’esibizione di un’evidenza circa la vaccinazione ricevuta.
Infine, è bene affrontare il tema anche su un piano logico. Dal momento che la campagna è in corso e si svolge secondo un piano con accessi regolati e priorità assegnate per categorie di cittadini, per quale motivo un soggetto che semplicemente non ha la possibilità di accedere alla vaccinazione dovrebbe vedersi incolpevolmente discriminato?
Il buon senso avrebbe già sdoganato la vicenda senza troppi problemi. Ma il pattern cognitivo e comportamentale che ha condotto ad una deriva di questo genere lo avevamo individuato quasi un anno fa parlando della volontarietà d’uso di Immuni, prevedendo proprio quegli orizzonti di auto-tutela della salute pubblica che oggi diventano sempre più pericolosamente attuali.