CITTADINI & UTENTI

Spotify vuole spiare le nostre emozioni?

La popolare piattaforma di streaming musicale ha ottenuto un brevetto che si basa sul riconoscimento vocale ed è in grado di suggerire canzoni e generi musicali corrispondenti allo stato d’animo dell’utente.

Sono state recentemente diffuse molte notizie relative all’intenzione di Spotify di “spiare” le emozioni dei propri utenti. Vero, Spotify ha registrato un brevetto per identificare le preferenze musicali partendo da un’analisi dei dati audio raccolti presso l’utente. Grazie all’impiego di un modello di Markov nascosto, partendo da un sistema di riconoscimento vocale e dei rumori ambientali, il sistema consentirebbe di elaborare metadati ed estrarre dei profili per suggerire la musica più adatta al contesto. 

Sostanzialmente, e sotto i filtri di analisi della data protection, un tale modello di profilazione emotiva è in grado di generare un database estremamente sensibile partendo da una vera e propria sorveglianza sistematica e continua degli utenti. Tale database, inoltre, può essere collegato con ulteriori elementi della storia digitale dell’utente, creando così suggerimenti ancor più personalizzati. 

La domanda è d’obbligo: fino a che punto di intensità, estensione e volume le finalità di miglioramento della user experience giustificano la rilevazione degli interessati?

Si tratta di temi etici, e non soltanto di limiti normativi. Citando l’articolo della ricerca “Just the way you are”, Spotify ha rassicurato che avrebbe sempre seguito un percorso etico nella progettazione e negli sviluppi della tecnologia citata, avendo massima considerazione dell’impiego dei dati e della trasparenza nei confronti degli utenti. C’è dunque un riconoscimento di valore del database, dell’impiego dello stesso, e dei vantaggi di mercato che offre un approccio etico e sostenibili all’impiego dei dati degli utenti, con la previsione di una definizione di standard e rigorosi processi di controllo.

Si potrebbe dire che allo stato dell’arte la tecnologia è un brevetto, e che dunque si sta parlando di quanti angeli possono danzare sulla punta di uno spillo? La tentazione di semplificare vorrebbe rispondere di sì, e che tanto “del doman non v’è certezza”. Il buon senso, che invece predilige l’azione (e preoccupazione) preventiva, suggerisce invece che è già il momento di intavolare discussioni circa gli orizzonti tecnologici che si profilano già dal deposito di un brevetto vista la rapidità mercuriale con cui si evolvono gli scenari digitali.

Le istanze di tutela che non hanno la capacità (o il coraggio) di inserirsi già all’interno della progettazione delle nuove tecnologie sono destinate infatti ad avere risultati imperfetti e parziali, e di conseguenza gli scenari “accadono” e possono veder realizzati solo rimedi successivi. Se si intende mantenere la tecnologia come human-centered anche sotto il profilo etico, è bene che pur di quell’incerto domani digitale si possa parlare già (con assennatezza) nel quotidiano. Non soltanto: è auspicabile che tali tematiche incontrino una sempre più diffusa partecipazione.

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