
Non è recentissimo, è del 2013. Se ne è parlato per un breve periodo di tempo. Poi è rimasto solo il ricordo di pochi. Eppure oggi, nel ragionare sul Recovery Fund e su come allocarne al meglio i fondi, vale la pena rileggerlo con attenzione. Parliamo de “La Nuova Geografia del lavoro” di Enrico Moretti (ed. italiana, Oscar Saggi, Mondadori, 2017).
Analizzando la storia dell’economia americana negli ultimi 30-40 anni Enrico Moretti, docente all’Università della California a Berkeley, ha evidenziato una tendenza da lui denominata “la grande divergenza”: A partire dagli anni 1980, l’economia degli Stati Uniti ha incontrato una biforcazione. Da un lato, città a basso capitale umano ed economia tradizionale iniziano a registrare ritorni decrescenti e una fiera competizione dall’estero. Dall’altro lato, città ricche di capitale umano ed economie basate su settori ad alta intensità di conoscenza, iniziano a vedere ritorni crescenti e ad approfittare appieno dei mercati globalizzati.
La divergenza è stata causata dal Big Push, come lo definisce Moretti, dell’economia dell’innovazione. Ha interessato l’evoluzione delle grandi città e relative comunità. L’incremento esponenziale della produttività e la competizione globale hanno significativamente ridotto l’occupazione e i salari nei settori tradizionali, manifatturiero “classico” compreso, mentre nuove industrie a elevata intensità di conoscenza, a elevato tasso di innovazione, prendevano progressivamente il loro posto.
Industrie, queste ultime, che richiedono una forza lavoro altamente educata con competenze e abilità specialistiche. Il che ha portato all’aggregazione di tali lavoratori e occupazioni in poli particolari che hanno tanto, perdendo per strada molte altre comunità che hanno perso tutto.
Moretti prende a esempio Albuquerque e Seattle. Seattle gli economisti l’avevano battezzata “la città della disperazione”. La battuta più feroce sulla città recitava: “Per favore, l’ultimo che lascia Seattle può essere così cortese da spegnere le luci?”
Quaranta anni fa, Albuquerque e Seattle erano molto simili. Nel 1970 Seattle aveva un cinque per cento in più di lavoratori diplomati (relativamente alla popolazione residente) e salari leggermente più alti –soprattutto grazie alla presenza della Boing- ma la distanza fra le due non era particolarmente rilevante.
Oggi, Seattle ha il 45 per cento di lavoratori diplomati in più e la disparità salariale è aumentata in modo proporzionale.
Microsoft è stata fondata ad Albuquerque e traslocò a Seattle nel 1968, motivata solo dal desiderio di Gates e Allen di tornare a casa. Sebbene all’epoca la cosa non fosse evidente la ricollocazione della Microsoft fu il catalizzatore che ha trasformato l’economia di Seattle in un polo tecnologico.
Microsoft ha generato 200mila posti di lavoro. 120mila nelle attività di servizio a basso profilo (autisti di taxi, imprese di pulizia, piccole attività commerciali…) e 80mila per personale diplomato (insegnanti, architetti, medici…).
Jeff Bezos, dal canto suo, non aveva nessun motivo personale di installare la Amazon a Seattle, ma lo ha fatto perché c’era l’ecosistema necessario e il capitale umano a esso associato. A Seattle Amazon occupa direttamente 75mila persone ed è responsabile della creazione di ulteriori 244mila posti di lavoro indiretti.
Per saperne di più sugli eco-sistemi, dove eco- sta per economia, e il loro ruolo per il successo delle comunità ad alta intensità di conoscenza, fare riferimento ai lavori di Marco Iansiti, David Sarnoff Professor alla Harvard Business School.
Il successo di un’azienda dipende certamente dalla qualità dei suoi addetti, ma non basta. Dipende anche dall’intero eco-sistema che la circonda. La co-localizzazione geografica è importante. La “fine delle distanze” è un mito, non una realtà. Le industrie ad alta tecnologia tendono ad essere le une vicino alle altre. Il fenomeno storico dei comprensori industriali italiani Prato, Como, Sassuolo, Brianza, Marche…- ne è la riprova. Un modello da riprendere in considerazione, con gli opportuni aggiornamenti.
La transizione a un’economia basata sull’innovazione non comporta solo la crescita di occupazione a reddito elevato. Questo tipo di lavoro comporta anche una crescita importante di occupazione in settori “tradizionali”, altamente localizzati. Secondo Enrico Moretti, in media il fattore moltiplicativo è pari a cinque. Per ogni lavoro legato all’innovazione ne vengono generati cinque tradizionali (nel caso di Jeff Bezos e della sua Amazon a Seattle il rapporto è di circa 1 a 4).
Un effetto molto maggiore di quello generato dal manifatturiero tradizionale dove ogni nuovo posto di lavoro ne genera 1.6 nelle attività di servizio. Un nuovo stabilimento di produzione porta all’apertura di un centro commerciale, non viceversa.
Se consideriamo le attività legate alla Rete, negli ultimi 10 anni (base 2013) la crescita dell’occupazione negli USA è stata pari al 634 per cento. 200 volte maggiore di quella registrata dall’insieme degli altri settori dell’economia. La relativa crescita dei salari, sempre su dieci anni, è stata pari al 712 per cento.
Le nuove tecnologie e l’economia dell’innovazione generano nuovi posti di lavoro, ma li distruggono anche. Schumpeter con la distruzione creativa aveva visto giusto. L’importante è il saldo netto finale. In Francia, ad esempio, l’avvento del Web ha fatto nascere 1.2 milioni di posti e ne ha distrutti 500 mila. In media si può affermare che per ogni posto di lavoro distrutto ne vengono generati 2.6. Da notare che la distruzione è diffusa sul territorio mentre la creazione è concentrata intorno ai poli di attività innovativa.
Apple a Cupertino ha 12mila addetti, ma ci sono almeno 60mila posti di lavoro nell’area che sono collegati alle sue attività. Di questi 24mila sono attività professionali –per esempio medici e avvocati – e 36mila sono attività di servizio a bassa specializzazione -camerieri, addetti ai negozi.
I lavori ad alta tecnologia, legati all’innovazione, si basano sul capitale umano e sulla sua qualità, flessibilità, creatività, competenza e abilità e sono la causa della prosperità. Tutti gli altri lavori, (si ricorda che il moltiplicatore è pari a cinque), sono l’effetto. L’importanza del ruolo del capitale umano spiega l’elevata intensità di mano d’opera delle industrie innovative.
Secondo Moretti ci sono in America, ma lo stesso si può dire per l’Europa e per l’Italia, tre geografie, tre modalità: i vincitori, i perdenti e “coloro che son sospesi” nella bolla del cambiamento. I vincitori sono le città e regioni altamente innovative, ad elevato tasso di educazione. I perdenti sono le realtà basate sulle “vecchie”, tradizionali industrie manifatturiere. I sospesi nella bolla sono le comunità, le città, le regioni che si trovano sul punto di sella. Possono diventare vincenti o ritrovarsi fra i perdenti.
Per inciso, va sottolineato che oggi non si ha a che fare con una crisi, definita come punto di svolta, positivo o negativo, di una dinamica pre-esistente e continua. Stiamo vivendo quello che Thomas Khun, epistemologo della scienza, chiama nel suo libro del 1962 “La Struttura delle Rivoluzioni Scientifiche” una “modifica di paradigma” un nuovo sistema di strumenti e metriche. Il processo di cambiamento che stiamo vivendo non porta alla riconfigurazione dell’esistente, ma a una situazione di quasi equilibrio, tipica dei sistemi complessi auto-adattivi quali l’economia e la geopolitica mondiale del tutto nuova.
Eppure il senso di urgenza associato al cambiamento in atto non è percepito appieno. Le città e regioni nella “bolla” non si mobilitano per attrarre industrie ad alta intensità di conoscenza, materiali e dematerializzate. Hanno ma non fanno.
Hanno i “talenti” dati ai servi della parabola di Matteo (29): …Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha…
Città e regioni si comportano come il servo che invece di mettere a frutto il talento, parliamo della moneta, ricevuta dal padrone preferisce seppellirla sotto terra per poi restituirgliela al suo ritorno. Gli altri servi della storia, uno con cinque e l’altro con due talenti, restituiscono il doppio della somma ricevuta grazie al rischio che hanno accettato di correre nell’investire il capitale ricevuto.
Troppe sono le città e regioni che seguono lo stesso approccio del servo fannullone: non fanno per non affrontare rischi. Parlano, pensando di potere vincere facile e si ritrovano …nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti… (Matteo 30).
La prospettiva del Recovery Fund ha aumentato, almeno fino a ora, l’eloquio e non l’azione. Fare significa coinvolgere tutti i settori dell’economia: primario, industria manifatturiera, non importa la taglia, ad alto valore aggiunto materiale e di conoscenza, servizi, finanza compresa. Finanza vista come uno degli strumenti del nuovo paradigma non come LO strumento del cambiamento.
Si è vincenti se si sviluppa l’economia dell’innovazione. Innovando –non rinnovando con operazioni di cosmesi più o meno di successo- tutti i settori dell’economia sopracitati. Innovare significa trovare modi aggiuntivi di creare nuovo valore.
Occorre dotare le città, le comunità a esse afferenti, le regioni e il sistema Paese di attrattori di innovazione: centri di eccellenza strettamente collegati alle realtà industriali locali; università il cui corpo accademico, basato sulla meritocrazia e non sulle baronie, annoveri delle “Superstar” capaci di fare convergere sull’accademia giovani motivati e appassionati alla ricerca; strutture economiche e burocratiche snelle ed efficienti che favoriscano l’insediamento di imprese, l’avvio di nuove realtà, capaci di fare convergere capitali nazionali ed esteri in una logica di investimento sul nuovo e non solo di acquisizione del meglio esistente.
La crescita dell’economia dell’innovazione è associata con la crescita del valore attribuito alle capacità, al talento –non moneta in questo caso- delle persone. Nel XX secolo, la competizione si giocava sull’accumulo del capitale fisico. Oggi si gioca sulla capacità di attrarre il meglio del capitale umano.
Il ritorno economico sulle nuove idee è oggi grande come non mai.
La ricetta suggerita da Moretti parla di “Big Push”. Occorre una forte, continuata nel tempo, spinta per muovere la bolla nella direzione dei vincenti. Una politica coordinata che consenta di superare l’impasse e al contempo porti lavoratori a elevata qualificazione, servizi alle imprese specializzati, imprese manifatturiere ad elevato valore aggiunto ad insediarsi stabilmente sul territorio. In altre parole occorre una politica industriale forte, con un orizzonte temporale che non sia limitato ai risultati del budget annuale. Per l’Italia sarebbe una prima volta…
Il Recovery Fund può e deve essere il Big Push per ridare entusiasmo ed energia al sistema Italia.
Saremo in grado di fare la giusta e necessaria progettazione, facendo seguire alle idee le azioni o continueremo a blaterare: bla bla bla…?