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Impeachment 2.0. La Vendetta dei Dem

Il partito democratico torna alla riscossa con Nancy Pelosi e Joe Biden. Il controverso procedimento sembra già allinearsi al fallimento precedente.

È del 12 gennaio 2021 la lettera inviata da Mike Pence, vicepresidente uscente degli Stati Uniti d’America a Nancy Pelosi, speaker della Camera dei rappresentanti. 

Il documento spiegava la decisione di Pence di venir meno alla richiesta di madame Pelosi e del caucus Democratico di invocare il 25esimo emendamento della Costituzione, nel tentativo di forzare la rimozione anticipata dalla Casa Bianca del presidente uscente Donald Trump, appena otto giorni prima del passaggio di testimone al neo eletto presidente Joe Biden.

Il 25esimo emendamento, invocato dal partito democratico, è la clausola che prevede il passaggio dei poteri al vicepresidente nel caso in cui il presidente in carica sia inabilitato o disabilitato a svolgere le sue funzioni.

Pence, che appena una settimana fa aveva dichiarato il rifiuto di schierarsi a favore del suo presidente a monte dello scandalo delle elezioni truccate, spiega in termini che lasciano pochi dubbi la sua decisione di non appoggiare la richiesta espressa dalla Pelosi:

“Secondo la nostra costituzione, il 25esimo emendamento non è un mezzo di punizione o di usurpazione (del potere N.d.R.). Invocarlo in tale maniera creerebbe un terribile precedente…Non cederò ai tentativi della Camera dei rappresentanti di intrattenersi in giochetti politici, in un momento così critico per la vita della nostra nazione”.

Il tentativo della Pelosi di forzare le dimissioni del presidente Trump prima della fine del suo mandato non è l’ultimo di una lunga serie di attacchi che hanno caratterizzato questi ultimi quattro anni. 

Basti pensare alla presunta collusione di Trump con la Russia, il “qui pro quo” con l’Ucraina ed il primo impeachment. Tutte queste iniziative sono parti integranti della coordinata offensiva dem iniziata già da prima dell’elezione di Trump a Presidente degli Stati Uniti e terminate, tutte, in un buco nell’acqua. 

Ed è così che il partito democratico contribuisce da primo attore a consolidare il profondo gap tra le due fazioni politiche che continua a lacerare il tessuto sociale americano, con le conseguenze a cui continuiamo ad assistere nel loro incessante evolversi  con regolare -quanto triste- scadenza.

La possibilità di una pacificazione sembra scemare di giorno in giorno.

Da una parte un presidente che pur essendo stato in grado di creare benessere economico e ridurre la disoccupazione -pre covid- a minimi storici, ha dimostrato una innegabile incapacità di promuovere unità e tolleranza, alimentando divisione e dissenso, vittima egli stesso di una personalità abrasiva e di una certa tendenza alla megalomania.

Dall’altra un partito di opposizione che, pur avendo vinto le elezioni, inizia il suo mandato politico all’insegna dell’imposizione di risoluzioni che non trovano la grande maggioranza d’accordo, correndo il rischio di rivelare una forte componente destabilizzante nell’immediato futuro. 

La credibilità del raffinato e toccante discorso presentato da Biden durante l’inaugurazione, svanisce come neve al sole alla luce dell’agenda programmatica che emerge durante la prima settimana del suo mandato. 

La sua promessa di sedare la forte polarizzazione che asfissia il Paese dichiarandosi il Presidente “di tutti gli americani”, in grado di conciliare le profonde differenze di matrice politica, appare rapidamente intorpidita dal dichiarato impegno verso iniziative che rivelano piuttosto la sua fedeltà al partito, innescando così l’ulteriore inasprimento del gap.

In soli 6 giorni Biden ha emesso 30 provvedimenti esecutivi. Trump ne aveva emessi quattro, Barak Obama cinque e George Bush nessuno.

Tagliare i fondi destinati alle forze di polizia indebolendo così il controllo della criminalità, approvare la reinterpretazione radicale della storia del Paese, alleggerire sanzioni e facilitare l’ingresso nel Paese dei cosiddetti immigrati illegali, indebolire la protezione dei confini nazionali, rinvigorire il complesso industriale bellico incrementando la presenza militare all’estero, resuscitare un già defunto accordo con la teocrazia iraniana, attingere ai serbatoi del fondo pensioni, aumentare le tasse: questi sono solo alcuni dei punti nevralgici che puntano dritto al cuore dei valori fulcro del pensiero conservativo.

Ma la pericolosa tendenza dei dem ad imporre la loro programmatica a dispetto del bene comune, era stata già ampiamente rivelata durante i riots che hanno afflitto impunemente –  e grazie al loro non celato consenso- le principali metropoli del Paese. 

Il periodo di rivolte organizzate da BLM ed Antifa, definito da Jenny Durkan sindaca dem di Seattle come “L’estate dell’amore”,  ha raggiunto il suo epilogo con 25 morti, più di 400 poliziotti feriti e un danno che si aggira intorno al miliardo e mezzo di dollari.

E veniamo a quest’ultimo impeachment o meglio impeachment 2.0, visto che la logica alla base dell’iniziativa sembra anticipare gli stessi risultati fallimentare del primo.

Ma con una differenza. Questa volta l’investigazione nei confronti dell’ex presidente prende luogo in seguito alla sua dipartita dalla Casa Bianca. 

L’accusa che gli si rivolge è di incitamento all’insurrezione.

Quello che è stato definito “il nuovo teatro dell’assurdo dei dem americani”, propone infatti l’applicazione della procedura di destituzione di un presidente non adeguato a tale posizione ad un comune cittadino, quale Donald Trump è ad oggi. E questo non ha precedenti nella storia. 

Il tutto è così fuori dalla realtà che lo stesso presidente della Corte Suprema, John Roberts, si è rifiutato di presiedere il processo come imporrebbe il protocollo, giustificando appunto la sua decisione col fatto che “Trump non è il Presidente.” 

La Costituzione non lascia dubbi, esprimendo nero su bianco che il presidente della Corte Suprema deve presiedere il processo quando” il presidente è l’accusato”, premessa che non sussiste in questo caso. 

Tanto per rendere le cose un po’ più chiare, il processo di impeachment presidenziale americano è presieduto dal presidente della Corte Suprema. La Costituzione richiede il voto di maggioranza di due terzi del Senato per procedere ed in caso di colpevolezza, la sanzione è applicata attraverso la rimozione dell’imputato dalla carica presidenziale.

Dunque, il presidente della Corte Suprema non si presenterà, l’ultimo referendum della camera riporta 45 “no” e 55 “si”, ed il cosiddetto “imputato” è già fuori dalla Casa Bianca per scaduto termine del suo mandato. Chiaro no?

Alla logica quanto banale domanda su che senso abbia iniziare un processo di impeachment su un “presidente” già fuori dalla Casa Bianca, la risposta della Pelosi è che il suo alto indice di pericolosità rende doverosa l’immediata rimozione di Trump. 

Risulta quindi naturale analizzare la risposta di madame Pelosi alla luce del fatto che l’ex Presidente è già “rimosso” e quindi l’operazione di disinnesco dell’ordigno per la quale la Pelosi ed i dem si preparano ad investire una quantità non indifferente di energie e risorse del Paese -durante una pandemia mondiale- appare inutile, perché l’ordigno è già stato disinnescato.

E allora? Cui prodest? 

La risposta trova la sua logica nella lungimiranza strategica dell’eliminazione di un candidato ritenuto pericoloso alle prossime presidenziali. 

Se il Senato dovesse infatti deliberare a favore della “rimozione” di Trump, lo stesso, a monte di un voto di maggioranza, ha il potere di impedire all’ex presidente di potersi candidare alle prossime elezioni presidenziali nel 2024. 

Ma a questo punto – considerati i fattori poco fa elencati- la speranza che il machiavellico progetto dei dem – Pelosi in testa – si materializzi, prende la forma del sogno irraggiungibile.

L’unità predicata da Biden con tanta enfasi durante il suo commovente discorso inaugurale, sembra piuttosto riferirsi nella realtà all’unità di coloro che condividono il pensiero della sinistra democratica radicale americana, piuttosto che non a quella del Paese.

Ed è così che l’anticipato elisir, per circa 75 milioni di americani, lascia in bocca un amaro retrogusto che sa tanto di oligarchia.

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